Alla ricerca di uno Steve Jobs Italiano. La storia e le idee di Adriano Olivetti

La recente morte di Steve Jobs, considerato tra i più grandi imprenditori-innovatori, dei nostri tempi, mi ha fatto riflettere riguardo allo stato in cui versa l’imprenditoria industriale italiana. Riflettendo ho cercato di trovare un imprenditore italiano che gli potesse essere paragonato, per la portata del successo aziendale, ma anche per la personalità, per le idee innovative ed inedite. Sono giunto così alla figura di Adriano Olivetti, che riuscì, sebbene in altri tempi, a creare una realtà aziendale che non credo abbia eguali nemmeno oggi.

Il suo modello d’impresa andava assolutamente in contro tendenza rispetto allo stile dell’epoca (vi ricordo che siamo negli anni 50) e per queste ragioni aveva trovato molti detrattori e forse ne troverebbe anche ai giorni nostri. Nelle sue fabbriche la cultura, la bellezza ed il benessere degli operai erano messi al centro dell’attenzione ed erano ritenuti aspetti fondamentali per la motivazione al lavoro e per l’incremento della produttività dell’intera azienda. Per fare qualche esempio nelle fabbriche olivettiane l’architettura era considerata fondamentale, Adriano Olivetti considerava infatti la bellezza un mezzo per l’elevazione dell’uomo. Ma non era solo la bellezza a farla da padrona alla Olivetti, la cultura giocava un ruolo fondamentale tant’è che nelle fabbriche era aperta una biblioteca consultabile durante l’orario di lavoro, si tenevano mostre, concerti e venivano invitati artisti, poeti e pensatori dell’epoca. Alla Olivetti i salari erano più alti della media e non si lavorava al sabato, addirittura era stato istituito un periodo di maternità per le donne (9 mesi con retribuzione al 100%), per i figli erano state create strutture ad hoc come asili, ambulatori medici e scuole. La cultura generale faceva parte dei programmi di formazione aziendale, inoltre la Olivetti fu una delle prime aziende a rivolgersi agli psicologi per le assunzioni e per migliorare l’ambiente di lavoro.

La Olivetti fu capace di inventare e commercializzare il primo elaboratore a transistor, chiamato EMEA, facendo concorrenza a colossi come IBM. In seguito purtroppo, a causa di una crisi finanziaria ed al mancato supporto delle banche, la divisione elettronica venne venduta alla General Electric. Questo evento verrà poi ritenuto da molti una grande occasione mancata per l’intera nazione.

Non vorrei ora dilungarmi troppo sui dettagli ed è per questo che vi invito a guardare il video (cliccate su puntata integrale), tratto dalla trasmissione “La storia siamo noi” di Giovanni Minoli, dove si ripercorre la storia di Adriano Olivetti e della sua azienda con interviste a personaggi che hanno condiviso la sua avventura. Vi consiglio inoltre di leggere uno dei numerosi libri sulla sua vita, se non addirittura direttamente uno degli scritti da lui pubblicati.

Il modello d’impresa di Adriano Olivetti è a mio avviso precursore (ignorato per troppo tempo) di molte teorie manageriali sulla motivazione e sul valore dell’impresa. Gli intangibles in Olivetti erano già importanti, oserei dire fondamentali, in un’epoca dove nel capitale umano non era ancora risposto il valore che oggi gli attribuiamo. In questa azienda ritroviamo quelle attenzioni agli aspetti più soft della gestione aziendale che oggi ci vengono riproposti in altre forme. Mi viene ad esempio in mente un recente filone di studi che si occupa di indagare quali benefici possa apportare l’arte nelle organizzazioni (artforbusiness.it, arts4business.org), oppure tutte le teorie di leadership e motivazione, delle quali abbondano i libri sugli scaffali delle biblioteche universitarie. Credo che l’esperienza olivettiana dovrebbe farci riflettere, sono passati tanti anni ed ancora oggi ci ritroviamo in situazioni molto lontane da quella realtà, dove l’impresa era parte integrante della comunità in cui risiedeva e dove l’attenzione alla persona ed alle sue problematiche era fattore determinante per la gestione aziendale.

Simone Verza

Capitale umano: i miei collaboratori sono felici?

Qualche tempo fa lessi il libro dello psicologo/filosofo Umberto Galimberti “I miti del nostro tempo” e rimasi stupito da alcune frasi che recitano più o meno così: “si parla molto spesso di motivazione del personale, dimenticandosi di un aspetto fondamentale: la felicità”; “ogni apparato tecnico (l’impresa), mal sopporta gli inconvenienti umani: stanchezza, depressione, amori, malattia, maternità e tutti quegli aspetti della vita che confliggono con la regolarità, l’impersonalità e l’efficienza”.

Queste poche parole mi hanno fatto pensare molto, soprattutto perché scritte da un “non addetto ai lavori”, ma forse proprio per questa ragione riescono ad avere un effetto ancora maggiore, probabilmente è proprio la distanza dal mondo aziendale che rende l’analisi efficace e pungente.

Che cosa c’entra questo con gli asset intangibili? Il capitale umano è semplicemente l’asset più importante che un’azienda abbia a sua disposizione. Capita spesso che nelle aziende si dedichi più tempo alla manutenzione delle macchine, che alla cura dei propri collaboratori, che, metaforicamente, alla stessa stregua delle macchine, hanno bisogno di attenzioni continue per funzionare al meglio. Ci ricordiamo sempre di fare la revisione all’auto perché altrimenti non ci lasciano più circolare, ma facciamo lo stesso con i nostri collaboratori? Vi siete mai chiesti se i vostri collaboratori/colleghi siano felici di fare quello che stanno facendo in azienda? E se non è così vi siete mai chiesti il perché? Forse la domanda risulta retorica ed ovviamente non è solo la vita lavorativa che influisce sulla felicità di un individuo, ma credo che sforzarci cercando di rendere la nostra azienda un luogo piacevole, possa essere la chiave di volta per ottenere molti risultati. Con questo mi riferisco non solo a chi nella scala gerarchica gestisce dei collaboratori, ma anche a chi lavorando fianco a fianco con i propri colleghi può influenzare il proprio clima di lavoro.

Personalmente ritengo che considerare la natura umana nella sua totalità, che come ben dice Galimberti, include quegli aspetti che molto spesso vengono mal digeriti in tante imprese, rappresenti la possibilità di aprirsi la strada verso performance aziendali fuori dal comune. Un’imprenditore (o un manager) che riconosca nell’individuo questi aspetti e che li rispetti, fa sentire il dipendente parte della famiglia e lo rende partecipe all’attività d’impresa, perché se l’impresa lo capisce, lo aiuta nei momenti di difficoltà, lo sostiene, è molto probabile che lui faccia altrettanto.

Sappiamo bene quanto possa rendere una persona felice di fare il proprio lavoro in un luogo dove il suo talento viene riconosciuto e dove l’azienda si prende cura di lui.

E lo stipendio direte voi? Eh si anche quello conta, come ci ha insegnato Maslow nella sua piramide, ci sono alcuni bisogni che vengono prima della realizzazione personale. Ancora una volta direi che in un’azienda che ha voglia di eccellere, un sistema retributivo adeguato dovrebbe essere scontato, anche se… “i soldi non fanno la felicità” e aggiungerei nemmeno la performance!

Non chiedetemi se la felicità si possa misurare in modo diretto perché la risposta è scontata, però ci sono alcuni indicatori che ci possono far sentire la puzza di bruciato, come ad esempio l’assenteismo e la disponibilità agli straordinari. Indirettamente ci sono un sacco di avvisaglie che possiamo cogliere, se qualcosa in azienda non va (vendiamo poco, siamo poco produttivi ecc.), proviamo a farci una di quelle domandine, mettiamoci gli occhiali dello psicologo e proviamo a capire perché i nostri collaboratori non sono felici. Attenzione però, accettare tutto ciò significa anche mettere in gioco se stessi.

Per concludere lasciatemi dire che questo modo di agire potrebbe avere delle ricadute sociali notevoli.

Simone