“Intangible Capital” di Mary Adams e Michael Oleksak

Ho di recente terminato la lettura del libro di Mary Adams e Michael Oleksak “Intangible Capital – Putting knowledge to work in the 21-st Century Organization” edito da Praeger (2010), a questo link trovate il sito ufficiale. In qualche post precedente vi avevo già dato un’anticipazione sul loro metodo di rappresentare le imprese con il Lego, un modo innovativo per utilizzare i famosi mattoncini. Nel libro, ovviamente, non c’è solo questo, anzi la trattazione del tema intangibles è molto ampia e propone alcuni spunti davvero innovativi.

Intangible capital book La prima parte di “Intangible Capital” si occupa dell’introduzione al mondo degli intangibles, descrivendone la loro natura. Adams ed Oleksak adottano la classica tripartizione capitale umano, capitale relazionale e capitale strutturale, aggiungendo però quella che loro definiscono “business recipe”, ossia la traduzione degli intangibles in un modello di impresa funzionante. In sostanza questo quarto elemento sarebbe il “collante” dei tre componenti del capitale intellettuale che gli conferisce un fine utile. A mio avviso questa parte è la meno interessante del libro (se si eccettua la sezione dedicata Lego), forse anche perché non sono affatto nuovo la letture di questo genere e possiamo dire che non aggiunge molto a quanto già proposto da numerosi autori, come Lev, Sveiby e Stewart. Apro una piccola parentesi: se mi è consentito muovere una critica, spesso quando molti autori parlano della tripartizione del capitale intellettuale e soprattutto si occupano di descrivere quei fenomeni riconducibili alle dinamiche della conoscenza e dell’apprendimento, lo fanno senza avere un valido supporto teorico alle spalle, per cui il risultato sono dei concetti che non hanno fondamenta solide e che possono essere soggetti a critiche (per inciso non sono un grande estimatore della “tripartizione” come potete leggere da un precedente articolo del blog). Quando parlo di terreno solido mi riferisco ad esempio alle teorie del knowledge management di Nonaka e Takeuchi, Davenport e Prusack, ma anche al filone di studi delle organizational capabilities, tra cui Nelson e Winter, Kogut e Zander, magari ne parlerò in un futuro articolo del blog.

La seconda parte del libro, invece, si occupa di definire quali siano le “nuove” dinamiche organizzative di una “knowledge based firm”, anche in questo caso non ci sono grosse novità o meglio, se volete approfondire l’argomento la letteratura che potete trovare è ampia e molto più esaustiva di quanto riportato qui. Nonostante ciò ci sono elementi comunque interessanti, il focus degli autori viene posto sull’ “orchestrazione”, ossia sulla trasposizione all’interno dell’azienda della figura del direttore d’orchestra, che, non essendo un virtuoso di tutti gli strumenti, non può (e non dovrebbe) scendere troppo nei dettagli di ogni singolo musicista. Allo stesso modo dovrebbe comportarsi il manager del 21° secolo.

Nonostante la prima parte del libro sostanzialmente non riporti molte novità e la seconda aggiunga solo qualche elemento interessante, la terza fornisce invece concetti importanti come modello di “new accounting”, la nuova contabilità degli intangibles:

  • i-capex
  • Intangible assessment
  • Performance Measurement

L’idea si concretizza quindi in tre elementi, la prima relativa all’ “i-capex” (i – capital expenditure), fa riferimento agli investimenti (in termini monetari) in intangible assets, ciò che consigliano gli autori è di tenere traccia di tutte le spese riconducibili ad investimenti in capitale intellettuale, a loro avviso questo è l’unico modo per fornire misurazioni di tipo monetario del fenomeno che abbiano un utilità, sia per chi è chiamato alla gestione aziendale, ma anche per gli altri stakeholder dell’impresa.

Il secondo caposaldo è rappresentato invece dall’ ”Intangible Assessment” del capitale intellettuale, definito letteralmente “the new Balance Sheet” (il nuovo stato patrimoniale), quello che suggeriscono Adams ed Oleksak è di redigere indagini periodiche sugli intangibles, sottoponendo adeguati questionari a tutti gli stakeholder aziendali, in questo modo dovrebbe essere possibile raccogliere informazioni sullo status quo dell’impresa rispetto ai diversi elementi del capitale intellettuale. Il terzo elemento è rappresentato infine dalla misurazione della performance (identificata come il nuovo conto economico) che dovrebbe contenere indicatori riferibili alle tre categorie di asset intangibili e ad avere un focus sia operativo che strategico, offrendo così una panoramica dinamica su quanto è accaduto (o sta accadendo) agli intangibles dell’impresa. Un accento particolare viene posto sulla “triangolazione” tra questi tre metodi di monitoraggio degli intangibles, che non vanno visti come sistemi a sé stanti, ma che al contrario dovrebbero proprio essere utilizzati in contemporanea per sfruttare le diverse prospettive con cui guardano al problema. In questo modo dovrebbe essere possibile avere un quadro completo sulla situazione aziendale che permetta di prendere decisioni consapevoli anche in materia di asset intangibili.

Un ulteriore capitolo è dedicato alla reputazione, aspetto non trattato dagli autori “classici” degli intangibles, ma che è diventato di estrema attualità negli ultimi tempi, basti pensare alle conseguenze negative che possono avere comportamenti che minaccino l’integrità dell’ambiente o la salute della popolazione. Se a tutto ciò uniamo la potenza di internet e dei social network, ci rendiamo conto come un solo errore possa avere ripercussioni enormi (direi anche fatali) sulla performance e sulla sopravvivenza di un’aziendale.

Il capitolo finale del libro fa una considerazione riguardo la diffusione della cultura degli intangibles nelle aziende e nelle istituzioni che ho trovato molto importante. Adams ed Oleksak, pur apprezzando le diverse iniziative nate con lo scopo di diffondere la cultura ed armonizzare il reporting sugli asset intangibili, sottolineano come il cambiamento debba partire dal basso, dalle aziende stesse ed anzi dai manager che non possono fare a meno di accorgersi quanto cruciale sia gestire e misurare gli asset intangibili.

Per concludere la lettura del libro è consigliata, come già detto in precedenza, la seconda e terza parte sono, a mio avviso, più interessanti della prima. Per chi fosse interessato ad acquistare il libro io l’ho trovato qui.

A presto!

Simone

Disegnare un’azienda con il LEGO!

Leggendo il nuovo libro di Mary Adams e Mike Oleksak, “Intangible Capital”, del quale magari vi riferirò più avanti la mia impressione quando l’avrò terminato , mi sono imbattuto in un curioso metodo di rappresentazione dell’impresa che utilizza i classici tre elementi del capitale intellettuale: capitale umano, capitale clienti (relazionale) e capitale strutturale. Adams ed Oleksak attraverso il LEGO, sì avete capito bene proprio il LEGO con cui giocavamo da bambini ,  rappresentano il meccanismo di funzionamento degli intangibles di un’azienda. Come potete vedere dalla figura, ad ogni pezzo corrisponde  un componente  del capitale intellettuale, mentre ad un altro mattoncino è affidato il compito di rappresentare il prodotto che viene venduto (più in generale nel modello il pezzo color oro, rappresenta la fonte di fatturato dell’impresa).

© Mary Adams & Mike Oleksak, 2010

Rivedere i pezzetti del Lego utilizzati in questo modo, mi ha fatto pensare ai tempi andati, dovrei averne una bella collezione in soffitta da qualche parte! Comunque state tranquilli se volete cimentarvi in questo metodo non è necessario rimettersi a giocare come si faceva un tempo, ho scoperto, sempre seguendo un link citato nel libro, che ora esiste il LEGO digitale! Potete scaricarvelo gratuitamente da questo link ldd.lego.com/download.

Tornando ora agli aspetti meno ludici della questione (come forse state immaginando io ero un vero appassionato di Lego), il metodo proposto è sicuramente interessante, potete scaricare un PDF dove viene illustrato per intero con l’ausilio di alcuni  esempi.

Personalmente trovo il sistema del LEGO geniale dal punto di vista visuale, l’idea incorpora in se l’incastrarsi dei pezzi l’uno sull’altro e questo è sicuramente un valido modo per rappresentare le connessioni che ci possono essere tra i vari componenti del capitale intellettuale. C’è invece margine di discussione sugli aspetti concettuali, come ho già discusso in un post precedente.

Qui potete trovare degli esempi, uno relativo ad un’azienda di apparecchiature medicali e l’atro che invece si riferisce ad un’impresa che commercializza pavimentazioni

Credo che il sistema LEGO si presti anche per altri usi e possa essere un ottimo metodo visuale per rappresentare anche altri fenomeni e poi col programmino si torna un po’ indietro nel tempo, provare per credere!

Simone

Intangibles, un punto di vista alternativo

La visione più classica del capitale intellettuale, proposta originariamente da Saint-Onge e riproposta poi da altri autori, è, come già detto nel post di apertura del blog, la tripartizione capitale umano, capitale clienti e capitale strutturale (per essere precisi inizialmente il capitale clienti faceva parte del capitale strutturale).

Numerosi autori hanno trattato di capitale intellettuale utilizzando questa classificazione, alcuni hanno apportato leggere modifiche, ma sostanzialmente questo è il modello che si è maggiormente diffuso su larga scala con applicazioni di diverso genere. C’è chi ha redatto bilanci degli intangibili secondo questi principi (in Italia ad esempio Brembo) e c’è chi ha proposto scorecard e sistemi di reporting (come ad esempio Sveiby).

Se ci soffermiamo ad analizzare approfonditamente i tre elementi, leggendo con attenzione le definizioni degli autori e osservando i metodi di misurazione che sono nati in base a questa tripartizione, possiamo notare come i confini tra un elemento e l’altro non siano poi così netti come ci potremmo immaginare. Mi viene soprattutto in mente una definizione fornita da Stewart (1997, Intellectual capital: the new wealth, Doubleday/Currency, New York – traduzione italiana, 1999, Il capitale intellettuale: la nuova ricchezza, Ponte alle grazie, Varese) riguardo il capitale strutturale che più o meno recita così: “il capitale strutturale è tutto ciò che rimane in azienda quando le persone sono andate a casa”, oppure anche Sveiby (1997, The new organizational wealth, Berrett- Koehler, San Francisco) che definisce capitale strutturale “l’organizzazione”.

L’affermarsi di questa visione, che in un certo qual senso offre una possibilità di spiegazione del fenomeno intangibles abbastanza intuibile e di facile comprensione, ha forse portato a trascurare un po’ la parte definitoria, che a mio avviso necessiterebbe di una teoria fondante più sostanziosa.

Naturalmente, come abbiamo già più volte detto, le teorie che si sono occupate di asset intangibili sono molteplici ed il fatto che non sia possibile definire gli asset intangibili secondo dei canoni standardizzati ha minato la diffusione di sistemi di misurazione standard ed ha favorito la proliferazione di tutti quei metodi che abbiamo visto in un precedente articolo pubblicato qui.

Detto questo però, non dobbiamo scordarci che anche se non esiste una teoria universale, ciò non significa che gli intangibles non siano importanti! Anzi, è proprio qui la sfida!

Abbiamo una certezza a cui agganciarci: la differenza tra valore di mercato e valore contabile di un’impresa è spiegata proprio dagli asset intangibili.

Tornando quindi ai metodi di rappresentazione degli intangibles e del capitale intellettuale, vorrei sottoporvi il lavoro di Contractor (2000, Valuing corporate knowledge and intangible assets: some general principles, Knowledge and Process Management, Vol. 7, Nr. 4, 242-255), che propone una visione che parte da presupposti un po’ diversi e che ci offre una lettura maggiormente dinamica rispetto alla famosa tripartizione che oramai ben conoscete.

Fonte: rielaborazione da Contractor (2000)

Come potete vedere dalla figura gli intangibles vengono anche in questo caso suddivisi in tre categorie, ma in questo caso sono rappresentati come sottoinsiemi l’uno dell’altro. Un approccio di questo genere sottolinea come gli asset intangibili abbiano natura unitaria e confini molto labili per i quali sia difficile un’identificazione certa.

La discriminante che determina il confine tra un sottoinsieme e l’altro è rappresentata dalla codificazione/esplicitazione della conoscenza e dalla sua eventuale registrazione come proprietà intellettuale. Troviamo così l’insieme più grande rappresentato dalla conoscenza tacita, insita negli individui ed incorporata nell’organizzazione, all’interno del quale trovano posto gli asset intellettuali codificati, come ad esempio le procedure, i progetti e i database. In questo caso possiamo parlare di conoscenza reificata, incorporata in alcuni “oggetti”, il valore di tali oggetti però è strettamente legato alla base di conoscenza tacita dei loro creatori/utilizzatori. Un esempio? Un database che raccoglie i dati dei clienti avrà un contenuto informativo diverso a seconda di chi vi acceda. Il customer service sarà in grado di estrapolare una mole rilevante di informazioni, utili per il proprio lavoro quotidiano, mentre gli stessi dati, osservati ad esempio da un addetto al controllo di gestione avranno una rilevanza minore e per certe parti risulteranno addirittura inutili. Come già affermato da Davenport e Prusack (1998, Working Knowledge, Harvard Business School Press) “ La conoscenza è nell’occhio di guarda!”

Infine nell’insieme più piccolo troviamo quella parte di sapere che oltre ad essere stato codificato e reificato in un oggetto “tangibile” (passatemi il termine), può godere dei diritti di tutela della proprietà intellettuale, l’esempio più lampante sono i brevetti. Un brevetto infatti, può essere visto come il punto di arrivo di dinamiche molto più intricate che hanno radici profonde nelle persone e nell’organizzazione. In altre parole il brevetto in se non è che la punta dell’iceberg del sapere di un’organizzazione.

Giungendo ora all’aspetto misurazione, come già preannunciato nella figura riportata sopra, gli asset intangibili legati alla conoscenza tacita, come è ovvio immaginare, sono quelli più difficili da misurare, mentre per i marchi ed i brevetti è più facile arrivare ad una valutazione di tipo monetario, tant’è che sono iscrivibili a bilancio come immobilizzazioni immateriali.

Spero che questo modello non vi abbia confuso le idee, rispetto alla classica tripartizione forse è un modo alternativo di guardare agli intangibles (non rappresenta necessariamente una via migliore), ma racchiude in se la spiegazione di molte dinamiche relative alla conoscenza che spesso vengono trascurate quando si parla di asset intangibili e di capitale intellettuale.

 

Simone

Focus: Capitale Clienti

In un post precedente definivo molto sommariamente il capitale clienti come “insieme di relazioni che vengono instaurate con clienti/partner esterni e che risultano essere fondamentali per l’esistenza ed il successo di un’impresa”.

Il capitale clienti rappresenta il punto di intersezione tra l’impresa ed i suoi partner, è generazione di valore condiviso che porta benefici ad entrambe le parti.

Più semplicemente, il capitale clienti può essere così sintetizzato:

  • tutto ciò che noi conosciamo riguardo i nostri clienti (e che ci rende capaci di vendere a loro)
  • tutto quello che loro sanno di noi (e che fa in modo che loro comprino da noi)

In questo ambito rientrano ovviamente tutte quelle caratteristiche hard e soft incorporate nel prodotto/servizio che vendiamo: qualità, utilità, prezzo, immagine, marchio, servizi aggiuntivi, assitenza post vendita, strategie di marketing, relazioni con i clienti, mode e tendenze ecc.

Quello che è importante è riuscire a controllare questi fattori, se alcuni possono essere influenzati in modo limitato (ad esempio le mode e tendenze del momento), altre rientrano invece nella sfera di discrezionalità dell’impresa

Qualche esempio?

Un buon venditore sa che cosa vuole la sua clientela, la conosce, la studia, sa esattamente che quando va dal cliente X, deve comportarsi in un certo modo, perché il cliente X è un tipo fatto così. X compra da noi, non soltanto perché il nostro venditore è uno in gamba, che ci sa fare, ma anche perché conosce il nostro marchio, molti suoi partner gliene hanno parlato bene, lui l’ha provato ed è soddisfatto. Quello che lui sa di noi è merito nostro, abbiamo deciso noi, più o meno indirettamente, che lui conoscesse la nostra azienda basandosi su certi presupposti. Non è certamente il caso a guidare l’acquisto di un nostro cliente.

Possiamo tentare di misurare il capitale clienti?

Certamente si, ma come spesso accade in questo contesto, è difficile misurare e soprattutto dare valore alle relazioni tra l’impresa ed cliente, risulta invece più facile ed intuitivo utilizzare degli indicatori che ci forniscano indirettamente delle informazioni sullo stato del nostro capitale clienti.

Vi riporto qui sotto un esempio molto semplice, che analizza il portafoglio clienti calassificando i nostri acquirenti in base al momento in cui abbiamo iniziato a servirli. Il nostro obiettivo tra un anno e l’altro non dovrebbe essere solo quello di incrementare il numero dei clienti nuovi (che tra il resto è generalmente più difficile e dispendioso), ma di farli restare con noi, incrementando il fatturato che generano. Idealmente nel corso del tempo dovremmo far cercare di spostare i clienti dalla prima riga alla seconda, poi alla terza ecc. aumentando il fatturato che viene generato dai clienti più “anziani”. Nell’esempio come potete facilmente notare il fatturato medio per cliente è fortemente a favore dei clienti che sono con noi da oltre 5 anni. Costruire una tabella come questa non è molto complicato, ai dati riportati in questo esempio possiamo aggiungere tutte le informazioni ed i calcoli che ci possono essere d’aiuto nelle nostre analisi.

Click per accedere al file Excel

Infine, un altro aspetto da non sottovalutare nella gestione del capitale clienti è rappresentato dal modo in cui creiamo valore assieme ai nostri partner. Ciò che generiamo dovrebbe essere il risultato di un rapporto bilanciato, possiamo infatti creare molto valore per i nostri clienti, ma questo valore potrebbe non essere ricompensato nel modo adeguato. Al contrario potremmo richiedere un prezzo troppo elevato per il valore che abbiamo creato. Lo schema qui sotto è abbastanza esemplificativo.

Prezzo e costo per il servizio, dovrebbero andare di pari passo, altrimenti la nostra azienda è esposta a due rischi. Se vendiamo ad un prezzo troppo alto in relazione al valore che creiamo, rischiamo che un bel giorno il nostro cliente si accorga che con noi non sta facendo buoni affari e potrebbe decidere di rivolgersi altrove. Se invece offriamo molto valore ad un cliente, ma non siamo in grado di farci ricompensare per quanto offerto, corriamo il rischio di rimetterci dalle nostre tasche.

Simone