2012: RESILIENZA!

Il 2012 è iniziato da poche ore e quest’anno, mai come nel recente passato, la spensieratezza dei festeggiamenti lascia spazio alle incertezze del futuro: spread, debito, default, crisi dell’Euro, global warming e tante altre parole, riecheggiano nella nostra testa redendo questo Capodanno un po’ diverso da quelli passati.

La parola chiave del prossimo anno sarà RESILIENZA (link a Wikipedia per una definizione esaustiva), mai come ora è necessario il cambiamento e se non siamo noi a generare il cambiamento chi altri lo deve fare? La promessa per il 2012 (che ovviamente riguarda anche me stesso) è quella di aumentare il nostro impegno sociale nella politica e nella partecipazione a tutto ciò che ci riguarda, non è sempre e solo colpa dei nostri tanto odiati politici ma è anche colpa nostra se le cose vanno male, non aspettiamo che il cambiamento arrivi, perché se non ci muoviamo non arriverà mai! Per dirla con le parole di Albert Einstein: “non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose!”. Per cui in quest’anno appena iniziato, perché non facciamo qualcosa che non abbiamo mai provato a fare? Imponiamocelo! Prendiamo parte di più alla vita pubblica, partecipiamo a dibattiti, incontri; informiamoci, conosciamoci, discutiamo e organizziamoci! Nessuno di voi è mai andato ad assistere ad una seduta del consiglio comunale? Si può iniziare semplicemente da qui.

C’è bisogno di un vento nuovo che spazzi via le vecchie logiche che ci hanno portato alla situazione attuale, questo vento potrà soffiare solamente se ci impegniamo tutti con serietà ed etica per un vero cambiamento, iniziando dalle piccole cose che ci circondano.

Non dimentichiamoci poi di investire nel risparmio energetico e nelle energie rinnovabili, se possiamo usiamo di meno l’auto e di più la bici, chiediamoci che impatto ha sull’ambiente ogni cosa che facciamo, perché questo è il futuro e siamo già in estremo ritardo! Riduciamo gli sprechi, lo si può fare a costo e fatica zero! La crisi è figlia anche del petrolio al quale siamo legati per fare ogni cosa.

Solo le persone e l’organizzazione possono attuare il cambiamento!

Auguro a tutti un 2012 estremamente resiliente!

Simone

Alla ricerca di uno Steve Jobs Italiano. La storia e le idee di Adriano Olivetti

La recente morte di Steve Jobs, considerato tra i più grandi imprenditori-innovatori, dei nostri tempi, mi ha fatto riflettere riguardo allo stato in cui versa l’imprenditoria industriale italiana. Riflettendo ho cercato di trovare un imprenditore italiano che gli potesse essere paragonato, per la portata del successo aziendale, ma anche per la personalità, per le idee innovative ed inedite. Sono giunto così alla figura di Adriano Olivetti, che riuscì, sebbene in altri tempi, a creare una realtà aziendale che non credo abbia eguali nemmeno oggi.

Il suo modello d’impresa andava assolutamente in contro tendenza rispetto allo stile dell’epoca (vi ricordo che siamo negli anni 50) e per queste ragioni aveva trovato molti detrattori e forse ne troverebbe anche ai giorni nostri. Nelle sue fabbriche la cultura, la bellezza ed il benessere degli operai erano messi al centro dell’attenzione ed erano ritenuti aspetti fondamentali per la motivazione al lavoro e per l’incremento della produttività dell’intera azienda. Per fare qualche esempio nelle fabbriche olivettiane l’architettura era considerata fondamentale, Adriano Olivetti considerava infatti la bellezza un mezzo per l’elevazione dell’uomo. Ma non era solo la bellezza a farla da padrona alla Olivetti, la cultura giocava un ruolo fondamentale tant’è che nelle fabbriche era aperta una biblioteca consultabile durante l’orario di lavoro, si tenevano mostre, concerti e venivano invitati artisti, poeti e pensatori dell’epoca. Alla Olivetti i salari erano più alti della media e non si lavorava al sabato, addirittura era stato istituito un periodo di maternità per le donne (9 mesi con retribuzione al 100%), per i figli erano state create strutture ad hoc come asili, ambulatori medici e scuole. La cultura generale faceva parte dei programmi di formazione aziendale, inoltre la Olivetti fu una delle prime aziende a rivolgersi agli psicologi per le assunzioni e per migliorare l’ambiente di lavoro.

La Olivetti fu capace di inventare e commercializzare il primo elaboratore a transistor, chiamato EMEA, facendo concorrenza a colossi come IBM. In seguito purtroppo, a causa di una crisi finanziaria ed al mancato supporto delle banche, la divisione elettronica venne venduta alla General Electric. Questo evento verrà poi ritenuto da molti una grande occasione mancata per l’intera nazione.

Non vorrei ora dilungarmi troppo sui dettagli ed è per questo che vi invito a guardare il video (cliccate su puntata integrale), tratto dalla trasmissione “La storia siamo noi” di Giovanni Minoli, dove si ripercorre la storia di Adriano Olivetti e della sua azienda con interviste a personaggi che hanno condiviso la sua avventura. Vi consiglio inoltre di leggere uno dei numerosi libri sulla sua vita, se non addirittura direttamente uno degli scritti da lui pubblicati.

Il modello d’impresa di Adriano Olivetti è a mio avviso precursore (ignorato per troppo tempo) di molte teorie manageriali sulla motivazione e sul valore dell’impresa. Gli intangibles in Olivetti erano già importanti, oserei dire fondamentali, in un’epoca dove nel capitale umano non era ancora risposto il valore che oggi gli attribuiamo. In questa azienda ritroviamo quelle attenzioni agli aspetti più soft della gestione aziendale che oggi ci vengono riproposti in altre forme. Mi viene ad esempio in mente un recente filone di studi che si occupa di indagare quali benefici possa apportare l’arte nelle organizzazioni (artforbusiness.it, arts4business.org), oppure tutte le teorie di leadership e motivazione, delle quali abbondano i libri sugli scaffali delle biblioteche universitarie. Credo che l’esperienza olivettiana dovrebbe farci riflettere, sono passati tanti anni ed ancora oggi ci ritroviamo in situazioni molto lontane da quella realtà, dove l’impresa era parte integrante della comunità in cui risiedeva e dove l’attenzione alla persona ed alle sue problematiche era fattore determinante per la gestione aziendale.

Simone Verza

Quanto valgono 60 secondi in internet?


© Go-Globe.com – Shanghai Web Designers

Immagino che molti di voi abbiano letto già questa notizia su qualche sito web o sui quotidiani, go-gulf.com, ha pubblicato questo “infographic” che ci racconta che cosa avviene nel web in 60 secondi. L’impatto è abbastanza forte e pare che il mondo reale si sia trasferito nel web visto le numerose cose che accadono. Lasciando per un attimo stare considerazioni di tipo quantitativo, dove certamente ci sarebbe da dilungarsi, leggere questi dati mi ha fatto pensare a quante di queste azioni svolte nei sessanta secondi abbiano un valore economico, ossia facciano parte o meno di una catena del valore, in modo diretto o indiretto. Sicuramente per le aziende che erogano questi servizi si, tempo fa qualcuno si era messo calcolare quanto valesse un utente di Facebook, quello che è certo è che siamo di fronte ad economie di rete, più utenti ci sono, più questi servizi vengono usati, maggiore è il loro valore. Qualcuno, naturalmente, potrebbe avere qualcosa da ridire sulla solidità di questi business, se un giorno agli utenti di Facebook non andrà più di utilizzare il servizio, molto probabilmente il valore dell’azienda scenderà.

Se guardiamo bene tra tutti servizi illustrati nell’infographic qui sopra, quasi tutti sono gratuiti, anche qui sta la differenza, c’è qualcuno che ci permette di utilizzare gratuitamente qualcosa di suo e ci consente di creare valore per noi stessi, siamo di fronte ad una rivoluzione che è necessario capire, forse non l’abbiamo ancora studiata a sufficienza, ma un mercato come questo è assai anomalo rispetto alla vita “non virtuale”, c’è sempre qualcosa che viene condiviso tra utente ed erogatore, ma entrambi in qualche modo ci possono guadagnare. Anche se a dire il vero qualcosa di nostro lo cediamo, ossia una parte della nostra privacy ed è possibile che alcuni dati sensibili vengono utilizzati, seppur in modo aggregato (speriamo), per fare indagini di mercato.

Tornando alle considerazioni sul valore, vorrei concentrarmi un attimo su quanto queste attività possono produrre per gli utenti, “postare” su Twitter potrebbe accrescere la nostra reputazione e quindi potrebbe far crescere il nostro “valore sulla rete” che dovrebbe essere collegato a come e quanto ci possiamo spendere sul mercato. In sostanza siamo di fronte ad un sacco di strumenti che possono far crescere la nostra reputazione, non solo come individui ma anche come aziende. Come molti di voi sapranno la reputazione, soprattutto negli ultimi tempi, viene tenuta in considerazione anche da chi si occupa di asset intangibili, basti pensare all’indice Repustars®, che si promette proprio di tenere traccia della reputazione di un panel di imprese.

Non vorrei dimenticare l’aspetto etico della questione (visto che tra il resto parliamo proprio di reputazione), come ben sapete forse alcune persone abusano di questi strumenti, utilizzandoli nei modi più disparati e pubblicizzando, a mio avviso, in modo eccessivo la loro vita, dove il virtuale si scambia con il reale, dove il pudore non esiste più. Anche se questa è un’altra storia, non scordiamoci mai gli aspetti etici di tutto ciò che facciamo, ogni singola nostra azione ha delle ripercussioni etiche di cui dovremmo sempre tenere conto, non solo nella nostra vita privata (che con i social network tende sempre più a diventare pubblica), ma anche in ambito lavorativo.

Una delle conclusioni più concrete che possiamo trarre da quest’analisi può senza dubbio essere: se ho a disposizione un sacco di strumenti gratuiti per fare business perché non utilizzarli?

Potrebbe essere utile per un sacco di motivi, come ad esempio per chi sta cercando lavoro, un buon profilo su Linkedin può aiutare e possono aiutare tutte le tracce positive di noi che lasciamo nella rete.

Simone

Disegnare un’azienda con il LEGO!

Leggendo il nuovo libro di Mary Adams e Mike Oleksak, “Intangible Capital”, del quale magari vi riferirò più avanti la mia impressione quando l’avrò terminato , mi sono imbattuto in un curioso metodo di rappresentazione dell’impresa che utilizza i classici tre elementi del capitale intellettuale: capitale umano, capitale clienti (relazionale) e capitale strutturale. Adams ed Oleksak attraverso il LEGO, sì avete capito bene proprio il LEGO con cui giocavamo da bambini ,  rappresentano il meccanismo di funzionamento degli intangibles di un’azienda. Come potete vedere dalla figura, ad ogni pezzo corrisponde  un componente  del capitale intellettuale, mentre ad un altro mattoncino è affidato il compito di rappresentare il prodotto che viene venduto (più in generale nel modello il pezzo color oro, rappresenta la fonte di fatturato dell’impresa).

© Mary Adams & Mike Oleksak, 2010

Rivedere i pezzetti del Lego utilizzati in questo modo, mi ha fatto pensare ai tempi andati, dovrei averne una bella collezione in soffitta da qualche parte! Comunque state tranquilli se volete cimentarvi in questo metodo non è necessario rimettersi a giocare come si faceva un tempo, ho scoperto, sempre seguendo un link citato nel libro, che ora esiste il LEGO digitale! Potete scaricarvelo gratuitamente da questo link ldd.lego.com/download.

Tornando ora agli aspetti meno ludici della questione (come forse state immaginando io ero un vero appassionato di Lego), il metodo proposto è sicuramente interessante, potete scaricare un PDF dove viene illustrato per intero con l’ausilio di alcuni  esempi.

Personalmente trovo il sistema del LEGO geniale dal punto di vista visuale, l’idea incorpora in se l’incastrarsi dei pezzi l’uno sull’altro e questo è sicuramente un valido modo per rappresentare le connessioni che ci possono essere tra i vari componenti del capitale intellettuale. C’è invece margine di discussione sugli aspetti concettuali, come ho già discusso in un post precedente.

Qui potete trovare degli esempi, uno relativo ad un’azienda di apparecchiature medicali e l’atro che invece si riferisce ad un’impresa che commercializza pavimentazioni

Credo che il sistema LEGO si presti anche per altri usi e possa essere un ottimo metodo visuale per rappresentare anche altri fenomeni e poi col programmino si torna un po’ indietro nel tempo, provare per credere!

Simone

Intangibles, un punto di vista alternativo

La visione più classica del capitale intellettuale, proposta originariamente da Saint-Onge e riproposta poi da altri autori, è, come già detto nel post di apertura del blog, la tripartizione capitale umano, capitale clienti e capitale strutturale (per essere precisi inizialmente il capitale clienti faceva parte del capitale strutturale).

Numerosi autori hanno trattato di capitale intellettuale utilizzando questa classificazione, alcuni hanno apportato leggere modifiche, ma sostanzialmente questo è il modello che si è maggiormente diffuso su larga scala con applicazioni di diverso genere. C’è chi ha redatto bilanci degli intangibili secondo questi principi (in Italia ad esempio Brembo) e c’è chi ha proposto scorecard e sistemi di reporting (come ad esempio Sveiby).

Se ci soffermiamo ad analizzare approfonditamente i tre elementi, leggendo con attenzione le definizioni degli autori e osservando i metodi di misurazione che sono nati in base a questa tripartizione, possiamo notare come i confini tra un elemento e l’altro non siano poi così netti come ci potremmo immaginare. Mi viene soprattutto in mente una definizione fornita da Stewart (1997, Intellectual capital: the new wealth, Doubleday/Currency, New York – traduzione italiana, 1999, Il capitale intellettuale: la nuova ricchezza, Ponte alle grazie, Varese) riguardo il capitale strutturale che più o meno recita così: “il capitale strutturale è tutto ciò che rimane in azienda quando le persone sono andate a casa”, oppure anche Sveiby (1997, The new organizational wealth, Berrett- Koehler, San Francisco) che definisce capitale strutturale “l’organizzazione”.

L’affermarsi di questa visione, che in un certo qual senso offre una possibilità di spiegazione del fenomeno intangibles abbastanza intuibile e di facile comprensione, ha forse portato a trascurare un po’ la parte definitoria, che a mio avviso necessiterebbe di una teoria fondante più sostanziosa.

Naturalmente, come abbiamo già più volte detto, le teorie che si sono occupate di asset intangibili sono molteplici ed il fatto che non sia possibile definire gli asset intangibili secondo dei canoni standardizzati ha minato la diffusione di sistemi di misurazione standard ed ha favorito la proliferazione di tutti quei metodi che abbiamo visto in un precedente articolo pubblicato qui.

Detto questo però, non dobbiamo scordarci che anche se non esiste una teoria universale, ciò non significa che gli intangibles non siano importanti! Anzi, è proprio qui la sfida!

Abbiamo una certezza a cui agganciarci: la differenza tra valore di mercato e valore contabile di un’impresa è spiegata proprio dagli asset intangibili.

Tornando quindi ai metodi di rappresentazione degli intangibles e del capitale intellettuale, vorrei sottoporvi il lavoro di Contractor (2000, Valuing corporate knowledge and intangible assets: some general principles, Knowledge and Process Management, Vol. 7, Nr. 4, 242-255), che propone una visione che parte da presupposti un po’ diversi e che ci offre una lettura maggiormente dinamica rispetto alla famosa tripartizione che oramai ben conoscete.

Fonte: rielaborazione da Contractor (2000)

Come potete vedere dalla figura gli intangibles vengono anche in questo caso suddivisi in tre categorie, ma in questo caso sono rappresentati come sottoinsiemi l’uno dell’altro. Un approccio di questo genere sottolinea come gli asset intangibili abbiano natura unitaria e confini molto labili per i quali sia difficile un’identificazione certa.

La discriminante che determina il confine tra un sottoinsieme e l’altro è rappresentata dalla codificazione/esplicitazione della conoscenza e dalla sua eventuale registrazione come proprietà intellettuale. Troviamo così l’insieme più grande rappresentato dalla conoscenza tacita, insita negli individui ed incorporata nell’organizzazione, all’interno del quale trovano posto gli asset intellettuali codificati, come ad esempio le procedure, i progetti e i database. In questo caso possiamo parlare di conoscenza reificata, incorporata in alcuni “oggetti”, il valore di tali oggetti però è strettamente legato alla base di conoscenza tacita dei loro creatori/utilizzatori. Un esempio? Un database che raccoglie i dati dei clienti avrà un contenuto informativo diverso a seconda di chi vi acceda. Il customer service sarà in grado di estrapolare una mole rilevante di informazioni, utili per il proprio lavoro quotidiano, mentre gli stessi dati, osservati ad esempio da un addetto al controllo di gestione avranno una rilevanza minore e per certe parti risulteranno addirittura inutili. Come già affermato da Davenport e Prusack (1998, Working Knowledge, Harvard Business School Press) “ La conoscenza è nell’occhio di guarda!”

Infine nell’insieme più piccolo troviamo quella parte di sapere che oltre ad essere stato codificato e reificato in un oggetto “tangibile” (passatemi il termine), può godere dei diritti di tutela della proprietà intellettuale, l’esempio più lampante sono i brevetti. Un brevetto infatti, può essere visto come il punto di arrivo di dinamiche molto più intricate che hanno radici profonde nelle persone e nell’organizzazione. In altre parole il brevetto in se non è che la punta dell’iceberg del sapere di un’organizzazione.

Giungendo ora all’aspetto misurazione, come già preannunciato nella figura riportata sopra, gli asset intangibili legati alla conoscenza tacita, come è ovvio immaginare, sono quelli più difficili da misurare, mentre per i marchi ed i brevetti è più facile arrivare ad una valutazione di tipo monetario, tant’è che sono iscrivibili a bilancio come immobilizzazioni immateriali.

Spero che questo modello non vi abbia confuso le idee, rispetto alla classica tripartizione forse è un modo alternativo di guardare agli intangibles (non rappresenta necessariamente una via migliore), ma racchiude in se la spiegazione di molte dinamiche relative alla conoscenza che spesso vengono trascurate quando si parla di asset intangibili e di capitale intellettuale.

 

Simone

Focus: Capitale Clienti

In un post precedente definivo molto sommariamente il capitale clienti come “insieme di relazioni che vengono instaurate con clienti/partner esterni e che risultano essere fondamentali per l’esistenza ed il successo di un’impresa”.

Il capitale clienti rappresenta il punto di intersezione tra l’impresa ed i suoi partner, è generazione di valore condiviso che porta benefici ad entrambe le parti.

Più semplicemente, il capitale clienti può essere così sintetizzato:

  • tutto ciò che noi conosciamo riguardo i nostri clienti (e che ci rende capaci di vendere a loro)
  • tutto quello che loro sanno di noi (e che fa in modo che loro comprino da noi)

In questo ambito rientrano ovviamente tutte quelle caratteristiche hard e soft incorporate nel prodotto/servizio che vendiamo: qualità, utilità, prezzo, immagine, marchio, servizi aggiuntivi, assitenza post vendita, strategie di marketing, relazioni con i clienti, mode e tendenze ecc.

Quello che è importante è riuscire a controllare questi fattori, se alcuni possono essere influenzati in modo limitato (ad esempio le mode e tendenze del momento), altre rientrano invece nella sfera di discrezionalità dell’impresa

Qualche esempio?

Un buon venditore sa che cosa vuole la sua clientela, la conosce, la studia, sa esattamente che quando va dal cliente X, deve comportarsi in un certo modo, perché il cliente X è un tipo fatto così. X compra da noi, non soltanto perché il nostro venditore è uno in gamba, che ci sa fare, ma anche perché conosce il nostro marchio, molti suoi partner gliene hanno parlato bene, lui l’ha provato ed è soddisfatto. Quello che lui sa di noi è merito nostro, abbiamo deciso noi, più o meno indirettamente, che lui conoscesse la nostra azienda basandosi su certi presupposti. Non è certamente il caso a guidare l’acquisto di un nostro cliente.

Possiamo tentare di misurare il capitale clienti?

Certamente si, ma come spesso accade in questo contesto, è difficile misurare e soprattutto dare valore alle relazioni tra l’impresa ed cliente, risulta invece più facile ed intuitivo utilizzare degli indicatori che ci forniscano indirettamente delle informazioni sullo stato del nostro capitale clienti.

Vi riporto qui sotto un esempio molto semplice, che analizza il portafoglio clienti calassificando i nostri acquirenti in base al momento in cui abbiamo iniziato a servirli. Il nostro obiettivo tra un anno e l’altro non dovrebbe essere solo quello di incrementare il numero dei clienti nuovi (che tra il resto è generalmente più difficile e dispendioso), ma di farli restare con noi, incrementando il fatturato che generano. Idealmente nel corso del tempo dovremmo far cercare di spostare i clienti dalla prima riga alla seconda, poi alla terza ecc. aumentando il fatturato che viene generato dai clienti più “anziani”. Nell’esempio come potete facilmente notare il fatturato medio per cliente è fortemente a favore dei clienti che sono con noi da oltre 5 anni. Costruire una tabella come questa non è molto complicato, ai dati riportati in questo esempio possiamo aggiungere tutte le informazioni ed i calcoli che ci possono essere d’aiuto nelle nostre analisi.

Click per accedere al file Excel

Infine, un altro aspetto da non sottovalutare nella gestione del capitale clienti è rappresentato dal modo in cui creiamo valore assieme ai nostri partner. Ciò che generiamo dovrebbe essere il risultato di un rapporto bilanciato, possiamo infatti creare molto valore per i nostri clienti, ma questo valore potrebbe non essere ricompensato nel modo adeguato. Al contrario potremmo richiedere un prezzo troppo elevato per il valore che abbiamo creato. Lo schema qui sotto è abbastanza esemplificativo.

Prezzo e costo per il servizio, dovrebbero andare di pari passo, altrimenti la nostra azienda è esposta a due rischi. Se vendiamo ad un prezzo troppo alto in relazione al valore che creiamo, rischiamo che un bel giorno il nostro cliente si accorga che con noi non sta facendo buoni affari e potrebbe decidere di rivolgersi altrove. Se invece offriamo molto valore ad un cliente, ma non siamo in grado di farci ricompensare per quanto offerto, corriamo il rischio di rimetterci dalle nostre tasche.

Simone

Balanced scorecard e asset intangibili

La Balanced Scorecard è probabilmente stato il primo metodo di misurazione di variabili non finanziare ad essere introdotto su larga scala e ad aver avuto un successo notevole. Per meglio inquadrarla nell’universo dei metodi di misurazione degli intangibles, potete far riferimento ad un precedente articolo apparso su questo blog.

La bilance scorcard è nata all’inizio degli anni 90 (Kaplan e Norton, 1992, Balanced Scorecard: Measures that drive performance, Harvard Business Review Jan-Feb), come strumento del controllo di gestione per monitorare gli aspetti non economico-finanziari dell’impresa. La sua struttura prevede quattro score card (ossia quattro “tabelle” in cui inserire le variabili da controllare), che corrispondono a quattro prospettive diverse:

  • finanziaria
  • apprendimento e crescita
  • processi interni
  • clienti

Lasciando per un attimo da parte la prospettiva che si riferisce a grandezze di tipo finanziario e concentrandoci invece sulle altre tre, possiamo facilmente accorgerci come vi sia una stretta analogia con i tre elementi del capitale intellettuale, che può essere sintetizzata nella tabella seguente.

Capitale Intellettuale

Balanced Scorcard

Capitale Umano Apprendimento e Crescita
Capitale Strutturale Processi Interni
Capitale Clienti Clienti

Le dimensioni trattate dalla Balanced Scorecard sono, al lato pratico, le stesse delle teorie del Capitale Intellettuale, con la differenza però, che ci troviamo di fronte ad un vero e proprio sistema di scoring delle attività aziendali. Il capitale intellettuale è invece prima una teoria, una visione dell’impresa, che poi ha dato adito alla creazione di modelli di misurazione/rappresentazione delle sue componenti. Con la Balanced scorcard ci troviamo quindi di fronte ad un sistema già pronto, che può essere utilizzato per monitorare gli asset intangibili della nostra impresa.

La struttura delle tabelle utilizzate per le quattro aree implica di fatto un orientamento all’azione ed un controllo budget/risultati reali continuo, come è facile notare dall’esempio riportato qui sotto.

Ci facciamo una domanda e rispondiamo di conseguenza con un piano d’azione che include obiettivi, misurazioni, target (relativi alle grandezze da misurare) ed iniziative poste in essere per raggiungere l’obiettivo. A me pare un ragionamento abbastanza semplice e lineare. Certo è importante focalizzarsi sulle misurazioni, dobbiamo decidere cosa misurare in relazione ai nostri obiettivi, siamo costretti dal sistema a porre attenzione ad aspetti che prima forse non consideravamo. Ci siamo mai chiesti, ad esempio, di quali competenze ha bisogno la nostra azienda da qui a 10 anni? Cosa vorremmo che sapessero fare i nostri collaboratori in accordo con la nostra strategia? Un metodo di questo tipo ci aiuta nel gestire questi aspetti, ed è proprio per queste ragioni che io credo che la Balanced Scorecard possa essere un valido e semplice metodo di gestione degli asset intangibili con un particolare orientamento all’azione. Lo trovo inoltre facilmente applicabile anche ad una piccola-media impresa ed anzi, chi ha voglia di eccellere, farebbe bene a pensare di dotarsi di strumenti simili.

La Balanced Scorecard è stata anche integrata da Beatty, Huselid e Schneier (2003, Scoring on the Business Scorecard, Organizational Dynamics, Vol. 32, n°2, pagg. 107-121): la parte relativa all’Apprendimento ed alla Crescita viene ampliata per far spazio alla HR Scorecard, che si focalizza quindi sulla gestione delle risorse umane.

©Beatty, Uselid e Schneider (2003)

Questa visione, naturalmente, si focalizza sul capitale umano e sulla sua gestione, trovando un punto di connessione con la classica Balanced Scorecard, in un ottica di gestione olistica dell’impresa.

Per concludere, possiamo quindi affermare che la Balanced Scorecard, sebbene inizialmente nata come uno strumento del Controllo di Gestione, sia in realtà un metodo di misurazione degli asset intangibili, che può essere contestualizzato e che può trovare facile applicazione per il suo orientamento ai risultati e per le implicazioni stratetiche che comporta la sua implementazione. Definire gli obiettivi con i relativi indicatori, significa mettersi a pensare che cosa vogliamo fare in futuro, cosa vogliamo che diventi la nostra azienda, quali saranno i nostri clienti, come dovranno essere i nostri collaboratori e come la nostra struttura dovrà supportare ed adattarsi alle nostre decisioni. Il modello si può applicare anche ad una micro impresa, pensare in questi termini permette di acquisire capacità gestionali orientate al medio-lungo termine.

Simone

Capitale umano: i miei collaboratori sono felici?

Qualche tempo fa lessi il libro dello psicologo/filosofo Umberto Galimberti “I miti del nostro tempo” e rimasi stupito da alcune frasi che recitano più o meno così: “si parla molto spesso di motivazione del personale, dimenticandosi di un aspetto fondamentale: la felicità”; “ogni apparato tecnico (l’impresa), mal sopporta gli inconvenienti umani: stanchezza, depressione, amori, malattia, maternità e tutti quegli aspetti della vita che confliggono con la regolarità, l’impersonalità e l’efficienza”.

Queste poche parole mi hanno fatto pensare molto, soprattutto perché scritte da un “non addetto ai lavori”, ma forse proprio per questa ragione riescono ad avere un effetto ancora maggiore, probabilmente è proprio la distanza dal mondo aziendale che rende l’analisi efficace e pungente.

Che cosa c’entra questo con gli asset intangibili? Il capitale umano è semplicemente l’asset più importante che un’azienda abbia a sua disposizione. Capita spesso che nelle aziende si dedichi più tempo alla manutenzione delle macchine, che alla cura dei propri collaboratori, che, metaforicamente, alla stessa stregua delle macchine, hanno bisogno di attenzioni continue per funzionare al meglio. Ci ricordiamo sempre di fare la revisione all’auto perché altrimenti non ci lasciano più circolare, ma facciamo lo stesso con i nostri collaboratori? Vi siete mai chiesti se i vostri collaboratori/colleghi siano felici di fare quello che stanno facendo in azienda? E se non è così vi siete mai chiesti il perché? Forse la domanda risulta retorica ed ovviamente non è solo la vita lavorativa che influisce sulla felicità di un individuo, ma credo che sforzarci cercando di rendere la nostra azienda un luogo piacevole, possa essere la chiave di volta per ottenere molti risultati. Con questo mi riferisco non solo a chi nella scala gerarchica gestisce dei collaboratori, ma anche a chi lavorando fianco a fianco con i propri colleghi può influenzare il proprio clima di lavoro.

Personalmente ritengo che considerare la natura umana nella sua totalità, che come ben dice Galimberti, include quegli aspetti che molto spesso vengono mal digeriti in tante imprese, rappresenti la possibilità di aprirsi la strada verso performance aziendali fuori dal comune. Un’imprenditore (o un manager) che riconosca nell’individuo questi aspetti e che li rispetti, fa sentire il dipendente parte della famiglia e lo rende partecipe all’attività d’impresa, perché se l’impresa lo capisce, lo aiuta nei momenti di difficoltà, lo sostiene, è molto probabile che lui faccia altrettanto.

Sappiamo bene quanto possa rendere una persona felice di fare il proprio lavoro in un luogo dove il suo talento viene riconosciuto e dove l’azienda si prende cura di lui.

E lo stipendio direte voi? Eh si anche quello conta, come ci ha insegnato Maslow nella sua piramide, ci sono alcuni bisogni che vengono prima della realizzazione personale. Ancora una volta direi che in un’azienda che ha voglia di eccellere, un sistema retributivo adeguato dovrebbe essere scontato, anche se… “i soldi non fanno la felicità” e aggiungerei nemmeno la performance!

Non chiedetemi se la felicità si possa misurare in modo diretto perché la risposta è scontata, però ci sono alcuni indicatori che ci possono far sentire la puzza di bruciato, come ad esempio l’assenteismo e la disponibilità agli straordinari. Indirettamente ci sono un sacco di avvisaglie che possiamo cogliere, se qualcosa in azienda non va (vendiamo poco, siamo poco produttivi ecc.), proviamo a farci una di quelle domandine, mettiamoci gli occhiali dello psicologo e proviamo a capire perché i nostri collaboratori non sono felici. Attenzione però, accettare tutto ciò significa anche mettere in gioco se stessi.

Per concludere lasciatemi dire che questo modo di agire potrebbe avere delle ricadute sociali notevoli.

Simone

Come si misurano gli asset intangibili?

Come molti di voi già sapranno la questione più spinosa, ma allo stesso tempo più avvincente ed interessante, relativa agli asset intangibili è la loro misurazione. Tentare di misurare qualcosa che non possiamo toccare e che molte volte è difficile persino da spiegare, non è impresa facile. Ci hanno provato in molti a farlo, con obiettivi e risultati diversi.

La prima cosa che ci possiamo chiedere è: che cosa vogliamo misurare? E poi…per quale ragione lo vogliamo fare? Se ci interessa, ad esempio, avere dei parametri sul capitale umano della nostra azienda oppure stimare il valore monetario degli asset intangibili di un’impresa, dobbiamo essere consapevoli che stiamo facendo due cose molto diverse.

In secondo luogo è necessario essere consapevoli che una delle questioni maggiormente aperte in questo ambito riguarda l’accettazione unanime di una metodologia di misurazione. Giusto per farvi capire in quanti si siano cimentati nel dire la loro, basta guardare questo schema, redatto da Karl Erik Sveiby, uno dei massimi esperti di intangibles, dove in un suo articolo (Methods for Measuring Intangible Assets, 2010) ha raccolto e classificato praticamente tutti i metodi utilizzati fino ad ora.

Come potete vedere ce ne sono veramente tanti ed è molto facile perdersi! Una prima distinzione è quella tra metodi monetari (forse quelli più ambiziosi) e quelli non monetari, quindi tra quei metodi che si prefiggono l’obiettivo di dare un valore in danaro ai nostri intangibles e quelli che invece non hanno questa pretesa. La seconda distinzione è tra i sistemi olistici e quelli atomistici, i primi si interessano di rilevare gli intangibles nel loro complesso, mentre i secondi si occupano delle loro componenti. Sveiby con questa classificazione individua così quattro categorie di metodi: una basata sulla capitalizzazione del mercato, dove per il calcolo è necessario conoscere il valore di mercato dell’impresa, siamo quindi di fronte a metodologie che sono di più facile applicazione per aziende quotate. La seconda categoria si riferisce invece a sistemi di misurazione che si basano sul concetto di “ritorno dell’investimento”, come ad esempio avviene quando si eseguono calcoli di convenienza economica per gli investimenti materiali. Il terzo gruppo di metodi di misurazione, fa riferimento a sistemi di valutazione diretta delle componenti del capitale intellettuale o di sue parti, come ad esempio i tentativi di tradurre in valore monetario il capitale umano. Infine troviamo i sistemi basati su scorecard, ossia su meccanismi di rendicontazione a punteggio, con indicatori non monetari. Questi sono i metodi più diffusi, anche perché trovano applicazione in maniera relativamente facile, attraverso l’adattamento di indicatori di performance legati alle diverse aree del capitale intellettuale. Tra i vari sistemi possiamo citare quello più conoscuto: la Balanced Scorecard di Kaplan e Norton.

Tornando a quanto dicevamo in precedenza, questo è il momento giusto per farci quelle due famose domande: cosa vogliamo misurare e qual è il nostro obiettivo? Vogliamo sapere qual è il valore stimato degli intangibles di un’azienda quotata? Possiamo prendere in considerazione il Market-to-book ratio, che è probabilmente l’indicatore più utilizzato in questi casi, si tratta semplicemente di fare questa operazione: Valore di mercato/Valore contabile, il risultato sarà un coefficiente che ci dice quante volte è contenuto il valore contabile nel valore di mercato, in questo modo sapremo quante volte in più (o in meno) viene valutata una determinata azienda. Per fini pratici questo indicatore potrebbe sembrare inutile ed infatti per chi si occupa di gestione aziendale molto probabilmente lo è, se siamo interessati quindi a gestire il capitale intellettuale dobbiamo rivolgerci ad altri metodi, come ad esempio la famosa Balanced Scorecard, oppure, proprio all’Intangible Asset Monitor di Sveiby. Questi sistemi infatti, hanno l’obiettivo di rendicontare quegli aspetti aziendali che sono legati proprio agli intangible assets. Come potrete immaginare non esiste il metodo perfetto ed è importante ricordare come il contesto di applicazione giochi un ruolo fondamentale nelle modalità di adattamento del metodo alla realtà.

A questo punto, una domanda sorge spontanea: come mai così tanti sistemi e nemmeno uno che sia uniformemente accettato? Il fenomeno degli intangibles ha confini molto labili e non esiste una definizione unanimemente accettata, per cui se non siamo ancora ben certi di che cosa si stia parlando, non possiamo immaginare di misurare gli asset intangibili in modo univoco. Ora si potrebbe dire, ma perché misuriamo questi intangibles se non sappiamo che cosa siano? Come si suol dire, “tra i due estremi la verità sta nel mezzo”: anche se non esiste una teoria comunemente accettata, non possiamo affermare che gli intangibles non esistano ed allo stesso tempo non ci possiamo astenere dal monitorarli.

Non è più possibile sopravvivere con i soli report economico-finanziari, questo molte aziende l’hanno capito già da tempo. Una reportistica economico-finanziaria adeguata è oramai scontata, per sopravvivere nell’arena competitiva, mentre rivolgere la propria attenzione anche agli asset intangibili può essere una grande opportunità per l’impresa. Un moderno sistema di controllo di gestione deve prevedere la misurazione, più o meno esplicita, più o meno codificata, degli asset intangibili. Vi lascio con tre domande, alle quali un sistema di gestione e controllo degli intangibles dovrebbe essere in grado di dare, se non una risposta, almeno un’indicazione di massima.

  • I miei collaboratori stanno bene in azienda e sono in grado di esprimere il loro potenziale? [come sta il capitale umano?]
  • Abbiamo creato un’infrastruttura che faciliti la circolazione delle informazioni, che permetta ed incentivi lo scambio di idee? [come sta il capitale strutturale?]
  • Che cosa pensano i nostri clienti di noi e che cosa sappiamo noi di loro? Perché comprano da noi? [come sta il capitale clienti?]

Simone

Che cosa sono gli intangibles?

Una definizione la potete trovare su wikipedia, anche se ad essere precisi riguarda il capitale intellettuale. Ecco già facciamo confusione! Intangibles e capitale intellettuale sono due cose diverse o sono la stessa cosa? Normalmente i due termini vengono usati quasi come sinonimi, anche se negli intangibles (o intangible assets, o meglio ancora nella nostra lingua asset/beni immateriali) rientrano anche quelle che i ragionieri chiamano immobilizzazioni immateriali, ossia brevetti, marchi, software, modelli, diritti di estrazione ecc., mentre nel capitale intellettuale no. Vi è comunque da sottolineare come quando si parli di intangibles si faccia comunque, e soprattutto, riferimento a quei beni, o forse in questo caso è meglio dire risorse, che hanno natura intangibile, ma che, alla stessa stregua degli investimenti materiali sono in grado di produrre ricchezza. Un esempio classico può essere quello delle risorse umane e delle loro capacità, determinanti per il successo dell’impresa. Il capitale intellettuale, viene normalmente classificato secondo la tripartizione tra capitale umano, capitale strutturale e capitale clienti (magari vedremo in qualche articolo successivo come, personalmente, non sia totalmente d’accordo con questa visione, nonostante sia quella più diffusa). Per capitale umano si intende naturalmente quell’insieme di abilità e competenze delle persone che compongono un’organizzazione e che vengono messe a frutto col fine di raggiungere un deteminato obiettivo. Per capitale strutturale invece, si considera l’infrastruttura dell’organizzazione che è al servizio delle persone, per cui in questo ambito rientrano le procedure, le informazioni contenute nei database e più in generale la conoscenza codificata. Quando si parla di capitale clienti, si intende invece, l’insieme di relazioni che vengono instaurate con clienti/partner esterni e che risultano essere fondamentali per l’esistenza ed il successo di un’impresa.

Un modo semplice ed efficace per dimostrare che il valore di un’impresa va oltre i suoi beni materiali, è quello di fare un confronto tra il suo valore contabile iscritto a bilancio (corrispondente al suo patrimonio netto), ed il suo valore di mercato. Naturalmente il raffronto risulta più semplice per le società di capitali quotate, perché abbiamo un parametro immediato come le azioni con cui ci possiamo raffrontare, ma il concetto è assolutamente valido anche per una micro-impresa, direi addirittura più lampante. Come potete vedere dalla rappresentazione grafica qui accanto, il valore di mercato di un’azienda quotata in borsa, dipende solamente in maniera minore dal suo valore di libro ed in larga parte dal valore dei suoi asset nascosti. Immaginiamo ora una piccola, piccolissima impresa, un professionista, un piccolo artigiano, quali investimenti cospicui in beni materiali potrà mai avere? Eppure se decidesse di cedere la sua attività, ne ricaverebbe un valore senza dubbio più elevato. Molto spesso le micro-imprese sono costituite quasi esclusivamente da asset intangibili, come le capacità del professionista, le sue competenze, la sua esperienza, la sua capacità di presentarsi ai clienti ecc. Forse abbiamo scoperto l’acqua calda? La parte difficile sta nel tentare di gestire e misurare questo valore nascosto (…nascosto fino ad un certo punto!), cercando di sostenerlo e valorizzarlo.

Quindi, per dare una definizione un po’ più ortodossa, relativa ad un’azienda quotata, possiamo dire che il valore di mercato di un’impresa, dato dalla somma delle sue azioni, è più alto di quello iscritto in bilancio (patrimonio netto), la differenza, lasciando per un attimo perdere la volatilità e le speculazioni, è rappresenta proprio dai nostri intangibles, che nella maggior parte dei casi hanno un valore assai maggiore rispetto ai beni materiali.

Naturalmente il mio era solo un assaggio, giusto per farvi capire di che cosa stiamo parlando, se siete dei “neofiti” degli intangibles, vi consiglio due testi (che sono presenti anche nella sezione Bibliografia), che io ritengo essere interessanti per chi voglia avvicinarsi a questo mondo. Il primo, è “Capitale Intellettuale” di Thomas A. Stewart, l’autore è un giornalista di Fortune ed è stato forse lui a coniare il termine capitale intellettuale in uno dei suoi articoli degli anni novanta (Fortune, “Brainpower“), mentre il secondo, che ha un approccio più accademico alla tematica è “Intangibles” di Baruch Lev , l’autore è un docente della Stern School of Management di New York ed è stato uno dei primi che ha tentato di dare forma ad una teoria fondativa che descrivesse a fondo le caratteristiche degli asset intangibili. Un altro documento, con un taglio meno divulgativo, ma di eguale importanza vista l’ampiezza disciplinare con cui viene trattato l’argomento, è uno studio della Comunità Europea, disponibile gratuitamente per il download al seguente link.

Ovviamente sono a disposizione per qualsiasi dubbio e per altri suggerimenti su testi ed articoli.

Alla prossima!

Simone