2012: RESILIENZA!

Il 2012 è iniziato da poche ore e quest’anno, mai come nel recente passato, la spensieratezza dei festeggiamenti lascia spazio alle incertezze del futuro: spread, debito, default, crisi dell’Euro, global warming e tante altre parole, riecheggiano nella nostra testa redendo questo Capodanno un po’ diverso da quelli passati.

La parola chiave del prossimo anno sarà RESILIENZA (link a Wikipedia per una definizione esaustiva), mai come ora è necessario il cambiamento e se non siamo noi a generare il cambiamento chi altri lo deve fare? La promessa per il 2012 (che ovviamente riguarda anche me stesso) è quella di aumentare il nostro impegno sociale nella politica e nella partecipazione a tutto ciò che ci riguarda, non è sempre e solo colpa dei nostri tanto odiati politici ma è anche colpa nostra se le cose vanno male, non aspettiamo che il cambiamento arrivi, perché se non ci muoviamo non arriverà mai! Per dirla con le parole di Albert Einstein: “non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose!”. Per cui in quest’anno appena iniziato, perché non facciamo qualcosa che non abbiamo mai provato a fare? Imponiamocelo! Prendiamo parte di più alla vita pubblica, partecipiamo a dibattiti, incontri; informiamoci, conosciamoci, discutiamo e organizziamoci! Nessuno di voi è mai andato ad assistere ad una seduta del consiglio comunale? Si può iniziare semplicemente da qui.

C’è bisogno di un vento nuovo che spazzi via le vecchie logiche che ci hanno portato alla situazione attuale, questo vento potrà soffiare solamente se ci impegniamo tutti con serietà ed etica per un vero cambiamento, iniziando dalle piccole cose che ci circondano.

Non dimentichiamoci poi di investire nel risparmio energetico e nelle energie rinnovabili, se possiamo usiamo di meno l’auto e di più la bici, chiediamoci che impatto ha sull’ambiente ogni cosa che facciamo, perché questo è il futuro e siamo già in estremo ritardo! Riduciamo gli sprechi, lo si può fare a costo e fatica zero! La crisi è figlia anche del petrolio al quale siamo legati per fare ogni cosa.

Solo le persone e l’organizzazione possono attuare il cambiamento!

Auguro a tutti un 2012 estremamente resiliente!

Simone

Alla ricerca di uno Steve Jobs Italiano. La storia e le idee di Adriano Olivetti

La recente morte di Steve Jobs, considerato tra i più grandi imprenditori-innovatori, dei nostri tempi, mi ha fatto riflettere riguardo allo stato in cui versa l’imprenditoria industriale italiana. Riflettendo ho cercato di trovare un imprenditore italiano che gli potesse essere paragonato, per la portata del successo aziendale, ma anche per la personalità, per le idee innovative ed inedite. Sono giunto così alla figura di Adriano Olivetti, che riuscì, sebbene in altri tempi, a creare una realtà aziendale che non credo abbia eguali nemmeno oggi.

Il suo modello d’impresa andava assolutamente in contro tendenza rispetto allo stile dell’epoca (vi ricordo che siamo negli anni 50) e per queste ragioni aveva trovato molti detrattori e forse ne troverebbe anche ai giorni nostri. Nelle sue fabbriche la cultura, la bellezza ed il benessere degli operai erano messi al centro dell’attenzione ed erano ritenuti aspetti fondamentali per la motivazione al lavoro e per l’incremento della produttività dell’intera azienda. Per fare qualche esempio nelle fabbriche olivettiane l’architettura era considerata fondamentale, Adriano Olivetti considerava infatti la bellezza un mezzo per l’elevazione dell’uomo. Ma non era solo la bellezza a farla da padrona alla Olivetti, la cultura giocava un ruolo fondamentale tant’è che nelle fabbriche era aperta una biblioteca consultabile durante l’orario di lavoro, si tenevano mostre, concerti e venivano invitati artisti, poeti e pensatori dell’epoca. Alla Olivetti i salari erano più alti della media e non si lavorava al sabato, addirittura era stato istituito un periodo di maternità per le donne (9 mesi con retribuzione al 100%), per i figli erano state create strutture ad hoc come asili, ambulatori medici e scuole. La cultura generale faceva parte dei programmi di formazione aziendale, inoltre la Olivetti fu una delle prime aziende a rivolgersi agli psicologi per le assunzioni e per migliorare l’ambiente di lavoro.

La Olivetti fu capace di inventare e commercializzare il primo elaboratore a transistor, chiamato EMEA, facendo concorrenza a colossi come IBM. In seguito purtroppo, a causa di una crisi finanziaria ed al mancato supporto delle banche, la divisione elettronica venne venduta alla General Electric. Questo evento verrà poi ritenuto da molti una grande occasione mancata per l’intera nazione.

Non vorrei ora dilungarmi troppo sui dettagli ed è per questo che vi invito a guardare il video (cliccate su puntata integrale), tratto dalla trasmissione “La storia siamo noi” di Giovanni Minoli, dove si ripercorre la storia di Adriano Olivetti e della sua azienda con interviste a personaggi che hanno condiviso la sua avventura. Vi consiglio inoltre di leggere uno dei numerosi libri sulla sua vita, se non addirittura direttamente uno degli scritti da lui pubblicati.

Il modello d’impresa di Adriano Olivetti è a mio avviso precursore (ignorato per troppo tempo) di molte teorie manageriali sulla motivazione e sul valore dell’impresa. Gli intangibles in Olivetti erano già importanti, oserei dire fondamentali, in un’epoca dove nel capitale umano non era ancora risposto il valore che oggi gli attribuiamo. In questa azienda ritroviamo quelle attenzioni agli aspetti più soft della gestione aziendale che oggi ci vengono riproposti in altre forme. Mi viene ad esempio in mente un recente filone di studi che si occupa di indagare quali benefici possa apportare l’arte nelle organizzazioni (artforbusiness.it, arts4business.org), oppure tutte le teorie di leadership e motivazione, delle quali abbondano i libri sugli scaffali delle biblioteche universitarie. Credo che l’esperienza olivettiana dovrebbe farci riflettere, sono passati tanti anni ed ancora oggi ci ritroviamo in situazioni molto lontane da quella realtà, dove l’impresa era parte integrante della comunità in cui risiedeva e dove l’attenzione alla persona ed alle sue problematiche era fattore determinante per la gestione aziendale.

Simone Verza

“Intangible Capital” di Mary Adams e Michael Oleksak

Ho di recente terminato la lettura del libro di Mary Adams e Michael Oleksak “Intangible Capital – Putting knowledge to work in the 21-st Century Organization” edito da Praeger (2010), a questo link trovate il sito ufficiale. In qualche post precedente vi avevo già dato un’anticipazione sul loro metodo di rappresentare le imprese con il Lego, un modo innovativo per utilizzare i famosi mattoncini. Nel libro, ovviamente, non c’è solo questo, anzi la trattazione del tema intangibles è molto ampia e propone alcuni spunti davvero innovativi.

Intangible capital book La prima parte di “Intangible Capital” si occupa dell’introduzione al mondo degli intangibles, descrivendone la loro natura. Adams ed Oleksak adottano la classica tripartizione capitale umano, capitale relazionale e capitale strutturale, aggiungendo però quella che loro definiscono “business recipe”, ossia la traduzione degli intangibles in un modello di impresa funzionante. In sostanza questo quarto elemento sarebbe il “collante” dei tre componenti del capitale intellettuale che gli conferisce un fine utile. A mio avviso questa parte è la meno interessante del libro (se si eccettua la sezione dedicata Lego), forse anche perché non sono affatto nuovo la letture di questo genere e possiamo dire che non aggiunge molto a quanto già proposto da numerosi autori, come Lev, Sveiby e Stewart. Apro una piccola parentesi: se mi è consentito muovere una critica, spesso quando molti autori parlano della tripartizione del capitale intellettuale e soprattutto si occupano di descrivere quei fenomeni riconducibili alle dinamiche della conoscenza e dell’apprendimento, lo fanno senza avere un valido supporto teorico alle spalle, per cui il risultato sono dei concetti che non hanno fondamenta solide e che possono essere soggetti a critiche (per inciso non sono un grande estimatore della “tripartizione” come potete leggere da un precedente articolo del blog). Quando parlo di terreno solido mi riferisco ad esempio alle teorie del knowledge management di Nonaka e Takeuchi, Davenport e Prusack, ma anche al filone di studi delle organizational capabilities, tra cui Nelson e Winter, Kogut e Zander, magari ne parlerò in un futuro articolo del blog.

La seconda parte del libro, invece, si occupa di definire quali siano le “nuove” dinamiche organizzative di una “knowledge based firm”, anche in questo caso non ci sono grosse novità o meglio, se volete approfondire l’argomento la letteratura che potete trovare è ampia e molto più esaustiva di quanto riportato qui. Nonostante ciò ci sono elementi comunque interessanti, il focus degli autori viene posto sull’ “orchestrazione”, ossia sulla trasposizione all’interno dell’azienda della figura del direttore d’orchestra, che, non essendo un virtuoso di tutti gli strumenti, non può (e non dovrebbe) scendere troppo nei dettagli di ogni singolo musicista. Allo stesso modo dovrebbe comportarsi il manager del 21° secolo.

Nonostante la prima parte del libro sostanzialmente non riporti molte novità e la seconda aggiunga solo qualche elemento interessante, la terza fornisce invece concetti importanti come modello di “new accounting”, la nuova contabilità degli intangibles:

  • i-capex
  • Intangible assessment
  • Performance Measurement

L’idea si concretizza quindi in tre elementi, la prima relativa all’ “i-capex” (i – capital expenditure), fa riferimento agli investimenti (in termini monetari) in intangible assets, ciò che consigliano gli autori è di tenere traccia di tutte le spese riconducibili ad investimenti in capitale intellettuale, a loro avviso questo è l’unico modo per fornire misurazioni di tipo monetario del fenomeno che abbiano un utilità, sia per chi è chiamato alla gestione aziendale, ma anche per gli altri stakeholder dell’impresa.

Il secondo caposaldo è rappresentato invece dall’ ”Intangible Assessment” del capitale intellettuale, definito letteralmente “the new Balance Sheet” (il nuovo stato patrimoniale), quello che suggeriscono Adams ed Oleksak è di redigere indagini periodiche sugli intangibles, sottoponendo adeguati questionari a tutti gli stakeholder aziendali, in questo modo dovrebbe essere possibile raccogliere informazioni sullo status quo dell’impresa rispetto ai diversi elementi del capitale intellettuale. Il terzo elemento è rappresentato infine dalla misurazione della performance (identificata come il nuovo conto economico) che dovrebbe contenere indicatori riferibili alle tre categorie di asset intangibili e ad avere un focus sia operativo che strategico, offrendo così una panoramica dinamica su quanto è accaduto (o sta accadendo) agli intangibles dell’impresa. Un accento particolare viene posto sulla “triangolazione” tra questi tre metodi di monitoraggio degli intangibles, che non vanno visti come sistemi a sé stanti, ma che al contrario dovrebbero proprio essere utilizzati in contemporanea per sfruttare le diverse prospettive con cui guardano al problema. In questo modo dovrebbe essere possibile avere un quadro completo sulla situazione aziendale che permetta di prendere decisioni consapevoli anche in materia di asset intangibili.

Un ulteriore capitolo è dedicato alla reputazione, aspetto non trattato dagli autori “classici” degli intangibles, ma che è diventato di estrema attualità negli ultimi tempi, basti pensare alle conseguenze negative che possono avere comportamenti che minaccino l’integrità dell’ambiente o la salute della popolazione. Se a tutto ciò uniamo la potenza di internet e dei social network, ci rendiamo conto come un solo errore possa avere ripercussioni enormi (direi anche fatali) sulla performance e sulla sopravvivenza di un’aziendale.

Il capitolo finale del libro fa una considerazione riguardo la diffusione della cultura degli intangibles nelle aziende e nelle istituzioni che ho trovato molto importante. Adams ed Oleksak, pur apprezzando le diverse iniziative nate con lo scopo di diffondere la cultura ed armonizzare il reporting sugli asset intangibili, sottolineano come il cambiamento debba partire dal basso, dalle aziende stesse ed anzi dai manager che non possono fare a meno di accorgersi quanto cruciale sia gestire e misurare gli asset intangibili.

Per concludere la lettura del libro è consigliata, come già detto in precedenza, la seconda e terza parte sono, a mio avviso, più interessanti della prima. Per chi fosse interessato ad acquistare il libro io l’ho trovato qui.

A presto!

Simone

La festa del capitale umano

Visto che oggi è la festa dei lavoratori e visto che questo blog si occupa di capitale intellettuale, potremmo dire che oggi sia la festa del capitale umano :-)! Vorrei segnalarvi un link, con un filmato che parla degli italiani espatriati in cerca di lavoro e soprattutto di futuro! Il nostro capitale umano migliore sta emigrando, dobbiamo riflettere!

Guardate il video! Dal blog di Sergio Nava “La fuga dei talenti

Simone

Disegnare un’azienda con il LEGO!

Leggendo il nuovo libro di Mary Adams e Mike Oleksak, “Intangible Capital”, del quale magari vi riferirò più avanti la mia impressione quando l’avrò terminato , mi sono imbattuto in un curioso metodo di rappresentazione dell’impresa che utilizza i classici tre elementi del capitale intellettuale: capitale umano, capitale clienti (relazionale) e capitale strutturale. Adams ed Oleksak attraverso il LEGO, sì avete capito bene proprio il LEGO con cui giocavamo da bambini ,  rappresentano il meccanismo di funzionamento degli intangibles di un’azienda. Come potete vedere dalla figura, ad ogni pezzo corrisponde  un componente  del capitale intellettuale, mentre ad un altro mattoncino è affidato il compito di rappresentare il prodotto che viene venduto (più in generale nel modello il pezzo color oro, rappresenta la fonte di fatturato dell’impresa).

© Mary Adams & Mike Oleksak, 2010

Rivedere i pezzetti del Lego utilizzati in questo modo, mi ha fatto pensare ai tempi andati, dovrei averne una bella collezione in soffitta da qualche parte! Comunque state tranquilli se volete cimentarvi in questo metodo non è necessario rimettersi a giocare come si faceva un tempo, ho scoperto, sempre seguendo un link citato nel libro, che ora esiste il LEGO digitale! Potete scaricarvelo gratuitamente da questo link ldd.lego.com/download.

Tornando ora agli aspetti meno ludici della questione (come forse state immaginando io ero un vero appassionato di Lego), il metodo proposto è sicuramente interessante, potete scaricare un PDF dove viene illustrato per intero con l’ausilio di alcuni  esempi.

Personalmente trovo il sistema del LEGO geniale dal punto di vista visuale, l’idea incorpora in se l’incastrarsi dei pezzi l’uno sull’altro e questo è sicuramente un valido modo per rappresentare le connessioni che ci possono essere tra i vari componenti del capitale intellettuale. C’è invece margine di discussione sugli aspetti concettuali, come ho già discusso in un post precedente.

Qui potete trovare degli esempi, uno relativo ad un’azienda di apparecchiature medicali e l’atro che invece si riferisce ad un’impresa che commercializza pavimentazioni

Credo che il sistema LEGO si presti anche per altri usi e possa essere un ottimo metodo visuale per rappresentare anche altri fenomeni e poi col programmino si torna un po’ indietro nel tempo, provare per credere!

Simone

Intangibles, un punto di vista alternativo

La visione più classica del capitale intellettuale, proposta originariamente da Saint-Onge e riproposta poi da altri autori, è, come già detto nel post di apertura del blog, la tripartizione capitale umano, capitale clienti e capitale strutturale (per essere precisi inizialmente il capitale clienti faceva parte del capitale strutturale).

Numerosi autori hanno trattato di capitale intellettuale utilizzando questa classificazione, alcuni hanno apportato leggere modifiche, ma sostanzialmente questo è il modello che si è maggiormente diffuso su larga scala con applicazioni di diverso genere. C’è chi ha redatto bilanci degli intangibili secondo questi principi (in Italia ad esempio Brembo) e c’è chi ha proposto scorecard e sistemi di reporting (come ad esempio Sveiby).

Se ci soffermiamo ad analizzare approfonditamente i tre elementi, leggendo con attenzione le definizioni degli autori e osservando i metodi di misurazione che sono nati in base a questa tripartizione, possiamo notare come i confini tra un elemento e l’altro non siano poi così netti come ci potremmo immaginare. Mi viene soprattutto in mente una definizione fornita da Stewart (1997, Intellectual capital: the new wealth, Doubleday/Currency, New York – traduzione italiana, 1999, Il capitale intellettuale: la nuova ricchezza, Ponte alle grazie, Varese) riguardo il capitale strutturale che più o meno recita così: “il capitale strutturale è tutto ciò che rimane in azienda quando le persone sono andate a casa”, oppure anche Sveiby (1997, The new organizational wealth, Berrett- Koehler, San Francisco) che definisce capitale strutturale “l’organizzazione”.

L’affermarsi di questa visione, che in un certo qual senso offre una possibilità di spiegazione del fenomeno intangibles abbastanza intuibile e di facile comprensione, ha forse portato a trascurare un po’ la parte definitoria, che a mio avviso necessiterebbe di una teoria fondante più sostanziosa.

Naturalmente, come abbiamo già più volte detto, le teorie che si sono occupate di asset intangibili sono molteplici ed il fatto che non sia possibile definire gli asset intangibili secondo dei canoni standardizzati ha minato la diffusione di sistemi di misurazione standard ed ha favorito la proliferazione di tutti quei metodi che abbiamo visto in un precedente articolo pubblicato qui.

Detto questo però, non dobbiamo scordarci che anche se non esiste una teoria universale, ciò non significa che gli intangibles non siano importanti! Anzi, è proprio qui la sfida!

Abbiamo una certezza a cui agganciarci: la differenza tra valore di mercato e valore contabile di un’impresa è spiegata proprio dagli asset intangibili.

Tornando quindi ai metodi di rappresentazione degli intangibles e del capitale intellettuale, vorrei sottoporvi il lavoro di Contractor (2000, Valuing corporate knowledge and intangible assets: some general principles, Knowledge and Process Management, Vol. 7, Nr. 4, 242-255), che propone una visione che parte da presupposti un po’ diversi e che ci offre una lettura maggiormente dinamica rispetto alla famosa tripartizione che oramai ben conoscete.

Fonte: rielaborazione da Contractor (2000)

Come potete vedere dalla figura gli intangibles vengono anche in questo caso suddivisi in tre categorie, ma in questo caso sono rappresentati come sottoinsiemi l’uno dell’altro. Un approccio di questo genere sottolinea come gli asset intangibili abbiano natura unitaria e confini molto labili per i quali sia difficile un’identificazione certa.

La discriminante che determina il confine tra un sottoinsieme e l’altro è rappresentata dalla codificazione/esplicitazione della conoscenza e dalla sua eventuale registrazione come proprietà intellettuale. Troviamo così l’insieme più grande rappresentato dalla conoscenza tacita, insita negli individui ed incorporata nell’organizzazione, all’interno del quale trovano posto gli asset intellettuali codificati, come ad esempio le procedure, i progetti e i database. In questo caso possiamo parlare di conoscenza reificata, incorporata in alcuni “oggetti”, il valore di tali oggetti però è strettamente legato alla base di conoscenza tacita dei loro creatori/utilizzatori. Un esempio? Un database che raccoglie i dati dei clienti avrà un contenuto informativo diverso a seconda di chi vi acceda. Il customer service sarà in grado di estrapolare una mole rilevante di informazioni, utili per il proprio lavoro quotidiano, mentre gli stessi dati, osservati ad esempio da un addetto al controllo di gestione avranno una rilevanza minore e per certe parti risulteranno addirittura inutili. Come già affermato da Davenport e Prusack (1998, Working Knowledge, Harvard Business School Press) “ La conoscenza è nell’occhio di guarda!”

Infine nell’insieme più piccolo troviamo quella parte di sapere che oltre ad essere stato codificato e reificato in un oggetto “tangibile” (passatemi il termine), può godere dei diritti di tutela della proprietà intellettuale, l’esempio più lampante sono i brevetti. Un brevetto infatti, può essere visto come il punto di arrivo di dinamiche molto più intricate che hanno radici profonde nelle persone e nell’organizzazione. In altre parole il brevetto in se non è che la punta dell’iceberg del sapere di un’organizzazione.

Giungendo ora all’aspetto misurazione, come già preannunciato nella figura riportata sopra, gli asset intangibili legati alla conoscenza tacita, come è ovvio immaginare, sono quelli più difficili da misurare, mentre per i marchi ed i brevetti è più facile arrivare ad una valutazione di tipo monetario, tant’è che sono iscrivibili a bilancio come immobilizzazioni immateriali.

Spero che questo modello non vi abbia confuso le idee, rispetto alla classica tripartizione forse è un modo alternativo di guardare agli intangibles (non rappresenta necessariamente una via migliore), ma racchiude in se la spiegazione di molte dinamiche relative alla conoscenza che spesso vengono trascurate quando si parla di asset intangibili e di capitale intellettuale.

 

Simone

Balanced scorecard e asset intangibili

La Balanced Scorecard è probabilmente stato il primo metodo di misurazione di variabili non finanziare ad essere introdotto su larga scala e ad aver avuto un successo notevole. Per meglio inquadrarla nell’universo dei metodi di misurazione degli intangibles, potete far riferimento ad un precedente articolo apparso su questo blog.

La bilance scorcard è nata all’inizio degli anni 90 (Kaplan e Norton, 1992, Balanced Scorecard: Measures that drive performance, Harvard Business Review Jan-Feb), come strumento del controllo di gestione per monitorare gli aspetti non economico-finanziari dell’impresa. La sua struttura prevede quattro score card (ossia quattro “tabelle” in cui inserire le variabili da controllare), che corrispondono a quattro prospettive diverse:

  • finanziaria
  • apprendimento e crescita
  • processi interni
  • clienti

Lasciando per un attimo da parte la prospettiva che si riferisce a grandezze di tipo finanziario e concentrandoci invece sulle altre tre, possiamo facilmente accorgerci come vi sia una stretta analogia con i tre elementi del capitale intellettuale, che può essere sintetizzata nella tabella seguente.

Capitale Intellettuale

Balanced Scorcard

Capitale Umano Apprendimento e Crescita
Capitale Strutturale Processi Interni
Capitale Clienti Clienti

Le dimensioni trattate dalla Balanced Scorecard sono, al lato pratico, le stesse delle teorie del Capitale Intellettuale, con la differenza però, che ci troviamo di fronte ad un vero e proprio sistema di scoring delle attività aziendali. Il capitale intellettuale è invece prima una teoria, una visione dell’impresa, che poi ha dato adito alla creazione di modelli di misurazione/rappresentazione delle sue componenti. Con la Balanced scorcard ci troviamo quindi di fronte ad un sistema già pronto, che può essere utilizzato per monitorare gli asset intangibili della nostra impresa.

La struttura delle tabelle utilizzate per le quattro aree implica di fatto un orientamento all’azione ed un controllo budget/risultati reali continuo, come è facile notare dall’esempio riportato qui sotto.

Ci facciamo una domanda e rispondiamo di conseguenza con un piano d’azione che include obiettivi, misurazioni, target (relativi alle grandezze da misurare) ed iniziative poste in essere per raggiungere l’obiettivo. A me pare un ragionamento abbastanza semplice e lineare. Certo è importante focalizzarsi sulle misurazioni, dobbiamo decidere cosa misurare in relazione ai nostri obiettivi, siamo costretti dal sistema a porre attenzione ad aspetti che prima forse non consideravamo. Ci siamo mai chiesti, ad esempio, di quali competenze ha bisogno la nostra azienda da qui a 10 anni? Cosa vorremmo che sapessero fare i nostri collaboratori in accordo con la nostra strategia? Un metodo di questo tipo ci aiuta nel gestire questi aspetti, ed è proprio per queste ragioni che io credo che la Balanced Scorecard possa essere un valido e semplice metodo di gestione degli asset intangibili con un particolare orientamento all’azione. Lo trovo inoltre facilmente applicabile anche ad una piccola-media impresa ed anzi, chi ha voglia di eccellere, farebbe bene a pensare di dotarsi di strumenti simili.

La Balanced Scorecard è stata anche integrata da Beatty, Huselid e Schneier (2003, Scoring on the Business Scorecard, Organizational Dynamics, Vol. 32, n°2, pagg. 107-121): la parte relativa all’Apprendimento ed alla Crescita viene ampliata per far spazio alla HR Scorecard, che si focalizza quindi sulla gestione delle risorse umane.

©Beatty, Uselid e Schneider (2003)

Questa visione, naturalmente, si focalizza sul capitale umano e sulla sua gestione, trovando un punto di connessione con la classica Balanced Scorecard, in un ottica di gestione olistica dell’impresa.

Per concludere, possiamo quindi affermare che la Balanced Scorecard, sebbene inizialmente nata come uno strumento del Controllo di Gestione, sia in realtà un metodo di misurazione degli asset intangibili, che può essere contestualizzato e che può trovare facile applicazione per il suo orientamento ai risultati e per le implicazioni stratetiche che comporta la sua implementazione. Definire gli obiettivi con i relativi indicatori, significa mettersi a pensare che cosa vogliamo fare in futuro, cosa vogliamo che diventi la nostra azienda, quali saranno i nostri clienti, come dovranno essere i nostri collaboratori e come la nostra struttura dovrà supportare ed adattarsi alle nostre decisioni. Il modello si può applicare anche ad una micro impresa, pensare in questi termini permette di acquisire capacità gestionali orientate al medio-lungo termine.

Simone

Capitale umano: i miei collaboratori sono felici?

Qualche tempo fa lessi il libro dello psicologo/filosofo Umberto Galimberti “I miti del nostro tempo” e rimasi stupito da alcune frasi che recitano più o meno così: “si parla molto spesso di motivazione del personale, dimenticandosi di un aspetto fondamentale: la felicità”; “ogni apparato tecnico (l’impresa), mal sopporta gli inconvenienti umani: stanchezza, depressione, amori, malattia, maternità e tutti quegli aspetti della vita che confliggono con la regolarità, l’impersonalità e l’efficienza”.

Queste poche parole mi hanno fatto pensare molto, soprattutto perché scritte da un “non addetto ai lavori”, ma forse proprio per questa ragione riescono ad avere un effetto ancora maggiore, probabilmente è proprio la distanza dal mondo aziendale che rende l’analisi efficace e pungente.

Che cosa c’entra questo con gli asset intangibili? Il capitale umano è semplicemente l’asset più importante che un’azienda abbia a sua disposizione. Capita spesso che nelle aziende si dedichi più tempo alla manutenzione delle macchine, che alla cura dei propri collaboratori, che, metaforicamente, alla stessa stregua delle macchine, hanno bisogno di attenzioni continue per funzionare al meglio. Ci ricordiamo sempre di fare la revisione all’auto perché altrimenti non ci lasciano più circolare, ma facciamo lo stesso con i nostri collaboratori? Vi siete mai chiesti se i vostri collaboratori/colleghi siano felici di fare quello che stanno facendo in azienda? E se non è così vi siete mai chiesti il perché? Forse la domanda risulta retorica ed ovviamente non è solo la vita lavorativa che influisce sulla felicità di un individuo, ma credo che sforzarci cercando di rendere la nostra azienda un luogo piacevole, possa essere la chiave di volta per ottenere molti risultati. Con questo mi riferisco non solo a chi nella scala gerarchica gestisce dei collaboratori, ma anche a chi lavorando fianco a fianco con i propri colleghi può influenzare il proprio clima di lavoro.

Personalmente ritengo che considerare la natura umana nella sua totalità, che come ben dice Galimberti, include quegli aspetti che molto spesso vengono mal digeriti in tante imprese, rappresenti la possibilità di aprirsi la strada verso performance aziendali fuori dal comune. Un’imprenditore (o un manager) che riconosca nell’individuo questi aspetti e che li rispetti, fa sentire il dipendente parte della famiglia e lo rende partecipe all’attività d’impresa, perché se l’impresa lo capisce, lo aiuta nei momenti di difficoltà, lo sostiene, è molto probabile che lui faccia altrettanto.

Sappiamo bene quanto possa rendere una persona felice di fare il proprio lavoro in un luogo dove il suo talento viene riconosciuto e dove l’azienda si prende cura di lui.

E lo stipendio direte voi? Eh si anche quello conta, come ci ha insegnato Maslow nella sua piramide, ci sono alcuni bisogni che vengono prima della realizzazione personale. Ancora una volta direi che in un’azienda che ha voglia di eccellere, un sistema retributivo adeguato dovrebbe essere scontato, anche se… “i soldi non fanno la felicità” e aggiungerei nemmeno la performance!

Non chiedetemi se la felicità si possa misurare in modo diretto perché la risposta è scontata, però ci sono alcuni indicatori che ci possono far sentire la puzza di bruciato, come ad esempio l’assenteismo e la disponibilità agli straordinari. Indirettamente ci sono un sacco di avvisaglie che possiamo cogliere, se qualcosa in azienda non va (vendiamo poco, siamo poco produttivi ecc.), proviamo a farci una di quelle domandine, mettiamoci gli occhiali dello psicologo e proviamo a capire perché i nostri collaboratori non sono felici. Attenzione però, accettare tutto ciò significa anche mettere in gioco se stessi.

Per concludere lasciatemi dire che questo modo di agire potrebbe avere delle ricadute sociali notevoli.

Simone