Quanto valgono 60 secondi in internet?


© Go-Globe.com – Shanghai Web Designers

Immagino che molti di voi abbiano letto già questa notizia su qualche sito web o sui quotidiani, go-gulf.com, ha pubblicato questo “infographic” che ci racconta che cosa avviene nel web in 60 secondi. L’impatto è abbastanza forte e pare che il mondo reale si sia trasferito nel web visto le numerose cose che accadono. Lasciando per un attimo stare considerazioni di tipo quantitativo, dove certamente ci sarebbe da dilungarsi, leggere questi dati mi ha fatto pensare a quante di queste azioni svolte nei sessanta secondi abbiano un valore economico, ossia facciano parte o meno di una catena del valore, in modo diretto o indiretto. Sicuramente per le aziende che erogano questi servizi si, tempo fa qualcuno si era messo calcolare quanto valesse un utente di Facebook, quello che è certo è che siamo di fronte ad economie di rete, più utenti ci sono, più questi servizi vengono usati, maggiore è il loro valore. Qualcuno, naturalmente, potrebbe avere qualcosa da ridire sulla solidità di questi business, se un giorno agli utenti di Facebook non andrà più di utilizzare il servizio, molto probabilmente il valore dell’azienda scenderà.

Se guardiamo bene tra tutti servizi illustrati nell’infographic qui sopra, quasi tutti sono gratuiti, anche qui sta la differenza, c’è qualcuno che ci permette di utilizzare gratuitamente qualcosa di suo e ci consente di creare valore per noi stessi, siamo di fronte ad una rivoluzione che è necessario capire, forse non l’abbiamo ancora studiata a sufficienza, ma un mercato come questo è assai anomalo rispetto alla vita “non virtuale”, c’è sempre qualcosa che viene condiviso tra utente ed erogatore, ma entrambi in qualche modo ci possono guadagnare. Anche se a dire il vero qualcosa di nostro lo cediamo, ossia una parte della nostra privacy ed è possibile che alcuni dati sensibili vengono utilizzati, seppur in modo aggregato (speriamo), per fare indagini di mercato.

Tornando alle considerazioni sul valore, vorrei concentrarmi un attimo su quanto queste attività possono produrre per gli utenti, “postare” su Twitter potrebbe accrescere la nostra reputazione e quindi potrebbe far crescere il nostro “valore sulla rete” che dovrebbe essere collegato a come e quanto ci possiamo spendere sul mercato. In sostanza siamo di fronte ad un sacco di strumenti che possono far crescere la nostra reputazione, non solo come individui ma anche come aziende. Come molti di voi sapranno la reputazione, soprattutto negli ultimi tempi, viene tenuta in considerazione anche da chi si occupa di asset intangibili, basti pensare all’indice Repustars®, che si promette proprio di tenere traccia della reputazione di un panel di imprese.

Non vorrei dimenticare l’aspetto etico della questione (visto che tra il resto parliamo proprio di reputazione), come ben sapete forse alcune persone abusano di questi strumenti, utilizzandoli nei modi più disparati e pubblicizzando, a mio avviso, in modo eccessivo la loro vita, dove il virtuale si scambia con il reale, dove il pudore non esiste più. Anche se questa è un’altra storia, non scordiamoci mai gli aspetti etici di tutto ciò che facciamo, ogni singola nostra azione ha delle ripercussioni etiche di cui dovremmo sempre tenere conto, non solo nella nostra vita privata (che con i social network tende sempre più a diventare pubblica), ma anche in ambito lavorativo.

Una delle conclusioni più concrete che possiamo trarre da quest’analisi può senza dubbio essere: se ho a disposizione un sacco di strumenti gratuiti per fare business perché non utilizzarli?

Potrebbe essere utile per un sacco di motivi, come ad esempio per chi sta cercando lavoro, un buon profilo su Linkedin può aiutare e possono aiutare tutte le tracce positive di noi che lasciamo nella rete.

Simone

Key Performance Indicators: un link interessante

Uno dei problemi principali che attanaglia chi si occupa di misurazione degli intangibles, è quello di trovare gli indicatori giusti, molte metodologie forniscono infatti quella che è l’intelaiatura del sistema di misurazione, ma non ci dicono quali indicatori usare, anche perché, se ci troviamo di fronte ad una scorecard, non possiamo immaginare di avere un set di indicatori che possa essere universalmente valido per tutte le aziende. Certamente, ci saranno alcuni parametri che si riveleranno utili in molti casi, ma per tenere conto delle specificità di ciascuna impresa o di ciascun reparto è necessario costruire indicatori ad hoc. Creare un nuovo parametro può essere rischioso e può condurci su sentieri che sapremo essere sbagliati solo quando in un secondo momento analizzeremo i risultati che abbiamo ottenuto dal monitoraggio effettuato. Per questa ragione potrebbe essere interessante confrontarsi con chi potrebbe aver avuto le nostre stesse necessità, verificando quali indicatori sono già stati sviluppati.

Proprio qualche giorno fa mi sono imbattuto in un sito che fa al caso nostro, si chiama kpilibrary.com ed è una sorta di community sui Key Performance Indicators (KPIs), dove è presente un vasto archivio con numerosi indicatori (al momento ne dichiara circa 6000) consultabili sia attraverso un catalogo che tramite una funzione di ricerca.

Personalmente ho trovato questa community utile, certo non aspettatevi un indicatore per ogni vostra domanda, ma piuttosto dategli un’occhiata con un occhio critico e utilizzatelo come base di partenza e/o confronto, forse potrà esservi utile per evitare qualche spiacevole sorpresa o vi potrà far scoprire qualche parametro interessante.

Piccola avvertenza: visto che si tratta di un sito gestito da un’azienda che si occupa di Performance Measurement Systems, aspettatevi un po’ di pubblicità dove cercheranno di proporvi i loro prodotti.

A presto!

 

Simone

Come si misurano gli asset intangibili?

Come molti di voi già sapranno la questione più spinosa, ma allo stesso tempo più avvincente ed interessante, relativa agli asset intangibili è la loro misurazione. Tentare di misurare qualcosa che non possiamo toccare e che molte volte è difficile persino da spiegare, non è impresa facile. Ci hanno provato in molti a farlo, con obiettivi e risultati diversi.

La prima cosa che ci possiamo chiedere è: che cosa vogliamo misurare? E poi…per quale ragione lo vogliamo fare? Se ci interessa, ad esempio, avere dei parametri sul capitale umano della nostra azienda oppure stimare il valore monetario degli asset intangibili di un’impresa, dobbiamo essere consapevoli che stiamo facendo due cose molto diverse.

In secondo luogo è necessario essere consapevoli che una delle questioni maggiormente aperte in questo ambito riguarda l’accettazione unanime di una metodologia di misurazione. Giusto per farvi capire in quanti si siano cimentati nel dire la loro, basta guardare questo schema, redatto da Karl Erik Sveiby, uno dei massimi esperti di intangibles, dove in un suo articolo (Methods for Measuring Intangible Assets, 2010) ha raccolto e classificato praticamente tutti i metodi utilizzati fino ad ora.

Come potete vedere ce ne sono veramente tanti ed è molto facile perdersi! Una prima distinzione è quella tra metodi monetari (forse quelli più ambiziosi) e quelli non monetari, quindi tra quei metodi che si prefiggono l’obiettivo di dare un valore in danaro ai nostri intangibles e quelli che invece non hanno questa pretesa. La seconda distinzione è tra i sistemi olistici e quelli atomistici, i primi si interessano di rilevare gli intangibles nel loro complesso, mentre i secondi si occupano delle loro componenti. Sveiby con questa classificazione individua così quattro categorie di metodi: una basata sulla capitalizzazione del mercato, dove per il calcolo è necessario conoscere il valore di mercato dell’impresa, siamo quindi di fronte a metodologie che sono di più facile applicazione per aziende quotate. La seconda categoria si riferisce invece a sistemi di misurazione che si basano sul concetto di “ritorno dell’investimento”, come ad esempio avviene quando si eseguono calcoli di convenienza economica per gli investimenti materiali. Il terzo gruppo di metodi di misurazione, fa riferimento a sistemi di valutazione diretta delle componenti del capitale intellettuale o di sue parti, come ad esempio i tentativi di tradurre in valore monetario il capitale umano. Infine troviamo i sistemi basati su scorecard, ossia su meccanismi di rendicontazione a punteggio, con indicatori non monetari. Questi sono i metodi più diffusi, anche perché trovano applicazione in maniera relativamente facile, attraverso l’adattamento di indicatori di performance legati alle diverse aree del capitale intellettuale. Tra i vari sistemi possiamo citare quello più conoscuto: la Balanced Scorecard di Kaplan e Norton.

Tornando a quanto dicevamo in precedenza, questo è il momento giusto per farci quelle due famose domande: cosa vogliamo misurare e qual è il nostro obiettivo? Vogliamo sapere qual è il valore stimato degli intangibles di un’azienda quotata? Possiamo prendere in considerazione il Market-to-book ratio, che è probabilmente l’indicatore più utilizzato in questi casi, si tratta semplicemente di fare questa operazione: Valore di mercato/Valore contabile, il risultato sarà un coefficiente che ci dice quante volte è contenuto il valore contabile nel valore di mercato, in questo modo sapremo quante volte in più (o in meno) viene valutata una determinata azienda. Per fini pratici questo indicatore potrebbe sembrare inutile ed infatti per chi si occupa di gestione aziendale molto probabilmente lo è, se siamo interessati quindi a gestire il capitale intellettuale dobbiamo rivolgerci ad altri metodi, come ad esempio la famosa Balanced Scorecard, oppure, proprio all’Intangible Asset Monitor di Sveiby. Questi sistemi infatti, hanno l’obiettivo di rendicontare quegli aspetti aziendali che sono legati proprio agli intangible assets. Come potrete immaginare non esiste il metodo perfetto ed è importante ricordare come il contesto di applicazione giochi un ruolo fondamentale nelle modalità di adattamento del metodo alla realtà.

A questo punto, una domanda sorge spontanea: come mai così tanti sistemi e nemmeno uno che sia uniformemente accettato? Il fenomeno degli intangibles ha confini molto labili e non esiste una definizione unanimemente accettata, per cui se non siamo ancora ben certi di che cosa si stia parlando, non possiamo immaginare di misurare gli asset intangibili in modo univoco. Ora si potrebbe dire, ma perché misuriamo questi intangibles se non sappiamo che cosa siano? Come si suol dire, “tra i due estremi la verità sta nel mezzo”: anche se non esiste una teoria comunemente accettata, non possiamo affermare che gli intangibles non esistano ed allo stesso tempo non ci possiamo astenere dal monitorarli.

Non è più possibile sopravvivere con i soli report economico-finanziari, questo molte aziende l’hanno capito già da tempo. Una reportistica economico-finanziaria adeguata è oramai scontata, per sopravvivere nell’arena competitiva, mentre rivolgere la propria attenzione anche agli asset intangibili può essere una grande opportunità per l’impresa. Un moderno sistema di controllo di gestione deve prevedere la misurazione, più o meno esplicita, più o meno codificata, degli asset intangibili. Vi lascio con tre domande, alle quali un sistema di gestione e controllo degli intangibles dovrebbe essere in grado di dare, se non una risposta, almeno un’indicazione di massima.

  • I miei collaboratori stanno bene in azienda e sono in grado di esprimere il loro potenziale? [come sta il capitale umano?]
  • Abbiamo creato un’infrastruttura che faciliti la circolazione delle informazioni, che permetta ed incentivi lo scambio di idee? [come sta il capitale strutturale?]
  • Che cosa pensano i nostri clienti di noi e che cosa sappiamo noi di loro? Perché comprano da noi? [come sta il capitale clienti?]

Simone