Intangibles, un punto di vista alternativo

La visione più classica del capitale intellettuale, proposta originariamente da Saint-Onge e riproposta poi da altri autori, è, come già detto nel post di apertura del blog, la tripartizione capitale umano, capitale clienti e capitale strutturale (per essere precisi inizialmente il capitale clienti faceva parte del capitale strutturale).

Numerosi autori hanno trattato di capitale intellettuale utilizzando questa classificazione, alcuni hanno apportato leggere modifiche, ma sostanzialmente questo è il modello che si è maggiormente diffuso su larga scala con applicazioni di diverso genere. C’è chi ha redatto bilanci degli intangibili secondo questi principi (in Italia ad esempio Brembo) e c’è chi ha proposto scorecard e sistemi di reporting (come ad esempio Sveiby).

Se ci soffermiamo ad analizzare approfonditamente i tre elementi, leggendo con attenzione le definizioni degli autori e osservando i metodi di misurazione che sono nati in base a questa tripartizione, possiamo notare come i confini tra un elemento e l’altro non siano poi così netti come ci potremmo immaginare. Mi viene soprattutto in mente una definizione fornita da Stewart (1997, Intellectual capital: the new wealth, Doubleday/Currency, New York – traduzione italiana, 1999, Il capitale intellettuale: la nuova ricchezza, Ponte alle grazie, Varese) riguardo il capitale strutturale che più o meno recita così: “il capitale strutturale è tutto ciò che rimane in azienda quando le persone sono andate a casa”, oppure anche Sveiby (1997, The new organizational wealth, Berrett- Koehler, San Francisco) che definisce capitale strutturale “l’organizzazione”.

L’affermarsi di questa visione, che in un certo qual senso offre una possibilità di spiegazione del fenomeno intangibles abbastanza intuibile e di facile comprensione, ha forse portato a trascurare un po’ la parte definitoria, che a mio avviso necessiterebbe di una teoria fondante più sostanziosa.

Naturalmente, come abbiamo già più volte detto, le teorie che si sono occupate di asset intangibili sono molteplici ed il fatto che non sia possibile definire gli asset intangibili secondo dei canoni standardizzati ha minato la diffusione di sistemi di misurazione standard ed ha favorito la proliferazione di tutti quei metodi che abbiamo visto in un precedente articolo pubblicato qui.

Detto questo però, non dobbiamo scordarci che anche se non esiste una teoria universale, ciò non significa che gli intangibles non siano importanti! Anzi, è proprio qui la sfida!

Abbiamo una certezza a cui agganciarci: la differenza tra valore di mercato e valore contabile di un’impresa è spiegata proprio dagli asset intangibili.

Tornando quindi ai metodi di rappresentazione degli intangibles e del capitale intellettuale, vorrei sottoporvi il lavoro di Contractor (2000, Valuing corporate knowledge and intangible assets: some general principles, Knowledge and Process Management, Vol. 7, Nr. 4, 242-255), che propone una visione che parte da presupposti un po’ diversi e che ci offre una lettura maggiormente dinamica rispetto alla famosa tripartizione che oramai ben conoscete.

Fonte: rielaborazione da Contractor (2000)

Come potete vedere dalla figura gli intangibles vengono anche in questo caso suddivisi in tre categorie, ma in questo caso sono rappresentati come sottoinsiemi l’uno dell’altro. Un approccio di questo genere sottolinea come gli asset intangibili abbiano natura unitaria e confini molto labili per i quali sia difficile un’identificazione certa.

La discriminante che determina il confine tra un sottoinsieme e l’altro è rappresentata dalla codificazione/esplicitazione della conoscenza e dalla sua eventuale registrazione come proprietà intellettuale. Troviamo così l’insieme più grande rappresentato dalla conoscenza tacita, insita negli individui ed incorporata nell’organizzazione, all’interno del quale trovano posto gli asset intellettuali codificati, come ad esempio le procedure, i progetti e i database. In questo caso possiamo parlare di conoscenza reificata, incorporata in alcuni “oggetti”, il valore di tali oggetti però è strettamente legato alla base di conoscenza tacita dei loro creatori/utilizzatori. Un esempio? Un database che raccoglie i dati dei clienti avrà un contenuto informativo diverso a seconda di chi vi acceda. Il customer service sarà in grado di estrapolare una mole rilevante di informazioni, utili per il proprio lavoro quotidiano, mentre gli stessi dati, osservati ad esempio da un addetto al controllo di gestione avranno una rilevanza minore e per certe parti risulteranno addirittura inutili. Come già affermato da Davenport e Prusack (1998, Working Knowledge, Harvard Business School Press) “ La conoscenza è nell’occhio di guarda!”

Infine nell’insieme più piccolo troviamo quella parte di sapere che oltre ad essere stato codificato e reificato in un oggetto “tangibile” (passatemi il termine), può godere dei diritti di tutela della proprietà intellettuale, l’esempio più lampante sono i brevetti. Un brevetto infatti, può essere visto come il punto di arrivo di dinamiche molto più intricate che hanno radici profonde nelle persone e nell’organizzazione. In altre parole il brevetto in se non è che la punta dell’iceberg del sapere di un’organizzazione.

Giungendo ora all’aspetto misurazione, come già preannunciato nella figura riportata sopra, gli asset intangibili legati alla conoscenza tacita, come è ovvio immaginare, sono quelli più difficili da misurare, mentre per i marchi ed i brevetti è più facile arrivare ad una valutazione di tipo monetario, tant’è che sono iscrivibili a bilancio come immobilizzazioni immateriali.

Spero che questo modello non vi abbia confuso le idee, rispetto alla classica tripartizione forse è un modo alternativo di guardare agli intangibles (non rappresenta necessariamente una via migliore), ma racchiude in se la spiegazione di molte dinamiche relative alla conoscenza che spesso vengono trascurate quando si parla di asset intangibili e di capitale intellettuale.

 

Simone

Come si misurano gli asset intangibili?

Come molti di voi già sapranno la questione più spinosa, ma allo stesso tempo più avvincente ed interessante, relativa agli asset intangibili è la loro misurazione. Tentare di misurare qualcosa che non possiamo toccare e che molte volte è difficile persino da spiegare, non è impresa facile. Ci hanno provato in molti a farlo, con obiettivi e risultati diversi.

La prima cosa che ci possiamo chiedere è: che cosa vogliamo misurare? E poi…per quale ragione lo vogliamo fare? Se ci interessa, ad esempio, avere dei parametri sul capitale umano della nostra azienda oppure stimare il valore monetario degli asset intangibili di un’impresa, dobbiamo essere consapevoli che stiamo facendo due cose molto diverse.

In secondo luogo è necessario essere consapevoli che una delle questioni maggiormente aperte in questo ambito riguarda l’accettazione unanime di una metodologia di misurazione. Giusto per farvi capire in quanti si siano cimentati nel dire la loro, basta guardare questo schema, redatto da Karl Erik Sveiby, uno dei massimi esperti di intangibles, dove in un suo articolo (Methods for Measuring Intangible Assets, 2010) ha raccolto e classificato praticamente tutti i metodi utilizzati fino ad ora.

Come potete vedere ce ne sono veramente tanti ed è molto facile perdersi! Una prima distinzione è quella tra metodi monetari (forse quelli più ambiziosi) e quelli non monetari, quindi tra quei metodi che si prefiggono l’obiettivo di dare un valore in danaro ai nostri intangibles e quelli che invece non hanno questa pretesa. La seconda distinzione è tra i sistemi olistici e quelli atomistici, i primi si interessano di rilevare gli intangibles nel loro complesso, mentre i secondi si occupano delle loro componenti. Sveiby con questa classificazione individua così quattro categorie di metodi: una basata sulla capitalizzazione del mercato, dove per il calcolo è necessario conoscere il valore di mercato dell’impresa, siamo quindi di fronte a metodologie che sono di più facile applicazione per aziende quotate. La seconda categoria si riferisce invece a sistemi di misurazione che si basano sul concetto di “ritorno dell’investimento”, come ad esempio avviene quando si eseguono calcoli di convenienza economica per gli investimenti materiali. Il terzo gruppo di metodi di misurazione, fa riferimento a sistemi di valutazione diretta delle componenti del capitale intellettuale o di sue parti, come ad esempio i tentativi di tradurre in valore monetario il capitale umano. Infine troviamo i sistemi basati su scorecard, ossia su meccanismi di rendicontazione a punteggio, con indicatori non monetari. Questi sono i metodi più diffusi, anche perché trovano applicazione in maniera relativamente facile, attraverso l’adattamento di indicatori di performance legati alle diverse aree del capitale intellettuale. Tra i vari sistemi possiamo citare quello più conoscuto: la Balanced Scorecard di Kaplan e Norton.

Tornando a quanto dicevamo in precedenza, questo è il momento giusto per farci quelle due famose domande: cosa vogliamo misurare e qual è il nostro obiettivo? Vogliamo sapere qual è il valore stimato degli intangibles di un’azienda quotata? Possiamo prendere in considerazione il Market-to-book ratio, che è probabilmente l’indicatore più utilizzato in questi casi, si tratta semplicemente di fare questa operazione: Valore di mercato/Valore contabile, il risultato sarà un coefficiente che ci dice quante volte è contenuto il valore contabile nel valore di mercato, in questo modo sapremo quante volte in più (o in meno) viene valutata una determinata azienda. Per fini pratici questo indicatore potrebbe sembrare inutile ed infatti per chi si occupa di gestione aziendale molto probabilmente lo è, se siamo interessati quindi a gestire il capitale intellettuale dobbiamo rivolgerci ad altri metodi, come ad esempio la famosa Balanced Scorecard, oppure, proprio all’Intangible Asset Monitor di Sveiby. Questi sistemi infatti, hanno l’obiettivo di rendicontare quegli aspetti aziendali che sono legati proprio agli intangible assets. Come potrete immaginare non esiste il metodo perfetto ed è importante ricordare come il contesto di applicazione giochi un ruolo fondamentale nelle modalità di adattamento del metodo alla realtà.

A questo punto, una domanda sorge spontanea: come mai così tanti sistemi e nemmeno uno che sia uniformemente accettato? Il fenomeno degli intangibles ha confini molto labili e non esiste una definizione unanimemente accettata, per cui se non siamo ancora ben certi di che cosa si stia parlando, non possiamo immaginare di misurare gli asset intangibili in modo univoco. Ora si potrebbe dire, ma perché misuriamo questi intangibles se non sappiamo che cosa siano? Come si suol dire, “tra i due estremi la verità sta nel mezzo”: anche se non esiste una teoria comunemente accettata, non possiamo affermare che gli intangibles non esistano ed allo stesso tempo non ci possiamo astenere dal monitorarli.

Non è più possibile sopravvivere con i soli report economico-finanziari, questo molte aziende l’hanno capito già da tempo. Una reportistica economico-finanziaria adeguata è oramai scontata, per sopravvivere nell’arena competitiva, mentre rivolgere la propria attenzione anche agli asset intangibili può essere una grande opportunità per l’impresa. Un moderno sistema di controllo di gestione deve prevedere la misurazione, più o meno esplicita, più o meno codificata, degli asset intangibili. Vi lascio con tre domande, alle quali un sistema di gestione e controllo degli intangibles dovrebbe essere in grado di dare, se non una risposta, almeno un’indicazione di massima.

  • I miei collaboratori stanno bene in azienda e sono in grado di esprimere il loro potenziale? [come sta il capitale umano?]
  • Abbiamo creato un’infrastruttura che faciliti la circolazione delle informazioni, che permetta ed incentivi lo scambio di idee? [come sta il capitale strutturale?]
  • Che cosa pensano i nostri clienti di noi e che cosa sappiamo noi di loro? Perché comprano da noi? [come sta il capitale clienti?]

Simone