2012: RESILIENZA!

Il 2012 è iniziato da poche ore e quest’anno, mai come nel recente passato, la spensieratezza dei festeggiamenti lascia spazio alle incertezze del futuro: spread, debito, default, crisi dell’Euro, global warming e tante altre parole, riecheggiano nella nostra testa redendo questo Capodanno un po’ diverso da quelli passati.

La parola chiave del prossimo anno sarà RESILIENZA (link a Wikipedia per una definizione esaustiva), mai come ora è necessario il cambiamento e se non siamo noi a generare il cambiamento chi altri lo deve fare? La promessa per il 2012 (che ovviamente riguarda anche me stesso) è quella di aumentare il nostro impegno sociale nella politica e nella partecipazione a tutto ciò che ci riguarda, non è sempre e solo colpa dei nostri tanto odiati politici ma è anche colpa nostra se le cose vanno male, non aspettiamo che il cambiamento arrivi, perché se non ci muoviamo non arriverà mai! Per dirla con le parole di Albert Einstein: “non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose!”. Per cui in quest’anno appena iniziato, perché non facciamo qualcosa che non abbiamo mai provato a fare? Imponiamocelo! Prendiamo parte di più alla vita pubblica, partecipiamo a dibattiti, incontri; informiamoci, conosciamoci, discutiamo e organizziamoci! Nessuno di voi è mai andato ad assistere ad una seduta del consiglio comunale? Si può iniziare semplicemente da qui.

C’è bisogno di un vento nuovo che spazzi via le vecchie logiche che ci hanno portato alla situazione attuale, questo vento potrà soffiare solamente se ci impegniamo tutti con serietà ed etica per un vero cambiamento, iniziando dalle piccole cose che ci circondano.

Non dimentichiamoci poi di investire nel risparmio energetico e nelle energie rinnovabili, se possiamo usiamo di meno l’auto e di più la bici, chiediamoci che impatto ha sull’ambiente ogni cosa che facciamo, perché questo è il futuro e siamo già in estremo ritardo! Riduciamo gli sprechi, lo si può fare a costo e fatica zero! La crisi è figlia anche del petrolio al quale siamo legati per fare ogni cosa.

Solo le persone e l’organizzazione possono attuare il cambiamento!

Auguro a tutti un 2012 estremamente resiliente!

Simone

Corso di formazione sul Capitale Intellettuale

Vi volevo informare  che il 14 novembre (in orario serale) parte il corso dal titolo “Il Capitale Intangibile dell’impresa: gestire e misurare il valore nascosto“. Il corso si propone l’obiettivo di far entrare in contatto i partecipanti con il mondo del capitale intellettuale e degli asset intangibili. Oltre ai principali modelli verrà riservato spazio alla Balance Scorecard ed a casi pratici.

Per chi fosse interessato a partecipare eccovi qui il link del Centro di Formazione Professionale “Einaudi” di Bolzano,  potetevi rivolgervi direttamente a loro per l’iscrizione. Ci sono ancora posti disponibili! Per qualsiasi domanda potete contattarmi qui o commentare il post.

A presto!

Simone

Alla ricerca di uno Steve Jobs Italiano. La storia e le idee di Adriano Olivetti

La recente morte di Steve Jobs, considerato tra i più grandi imprenditori-innovatori, dei nostri tempi, mi ha fatto riflettere riguardo allo stato in cui versa l’imprenditoria industriale italiana. Riflettendo ho cercato di trovare un imprenditore italiano che gli potesse essere paragonato, per la portata del successo aziendale, ma anche per la personalità, per le idee innovative ed inedite. Sono giunto così alla figura di Adriano Olivetti, che riuscì, sebbene in altri tempi, a creare una realtà aziendale che non credo abbia eguali nemmeno oggi.

Il suo modello d’impresa andava assolutamente in contro tendenza rispetto allo stile dell’epoca (vi ricordo che siamo negli anni 50) e per queste ragioni aveva trovato molti detrattori e forse ne troverebbe anche ai giorni nostri. Nelle sue fabbriche la cultura, la bellezza ed il benessere degli operai erano messi al centro dell’attenzione ed erano ritenuti aspetti fondamentali per la motivazione al lavoro e per l’incremento della produttività dell’intera azienda. Per fare qualche esempio nelle fabbriche olivettiane l’architettura era considerata fondamentale, Adriano Olivetti considerava infatti la bellezza un mezzo per l’elevazione dell’uomo. Ma non era solo la bellezza a farla da padrona alla Olivetti, la cultura giocava un ruolo fondamentale tant’è che nelle fabbriche era aperta una biblioteca consultabile durante l’orario di lavoro, si tenevano mostre, concerti e venivano invitati artisti, poeti e pensatori dell’epoca. Alla Olivetti i salari erano più alti della media e non si lavorava al sabato, addirittura era stato istituito un periodo di maternità per le donne (9 mesi con retribuzione al 100%), per i figli erano state create strutture ad hoc come asili, ambulatori medici e scuole. La cultura generale faceva parte dei programmi di formazione aziendale, inoltre la Olivetti fu una delle prime aziende a rivolgersi agli psicologi per le assunzioni e per migliorare l’ambiente di lavoro.

La Olivetti fu capace di inventare e commercializzare il primo elaboratore a transistor, chiamato EMEA, facendo concorrenza a colossi come IBM. In seguito purtroppo, a causa di una crisi finanziaria ed al mancato supporto delle banche, la divisione elettronica venne venduta alla General Electric. Questo evento verrà poi ritenuto da molti una grande occasione mancata per l’intera nazione.

Non vorrei ora dilungarmi troppo sui dettagli ed è per questo che vi invito a guardare il video (cliccate su puntata integrale), tratto dalla trasmissione “La storia siamo noi” di Giovanni Minoli, dove si ripercorre la storia di Adriano Olivetti e della sua azienda con interviste a personaggi che hanno condiviso la sua avventura. Vi consiglio inoltre di leggere uno dei numerosi libri sulla sua vita, se non addirittura direttamente uno degli scritti da lui pubblicati.

Il modello d’impresa di Adriano Olivetti è a mio avviso precursore (ignorato per troppo tempo) di molte teorie manageriali sulla motivazione e sul valore dell’impresa. Gli intangibles in Olivetti erano già importanti, oserei dire fondamentali, in un’epoca dove nel capitale umano non era ancora risposto il valore che oggi gli attribuiamo. In questa azienda ritroviamo quelle attenzioni agli aspetti più soft della gestione aziendale che oggi ci vengono riproposti in altre forme. Mi viene ad esempio in mente un recente filone di studi che si occupa di indagare quali benefici possa apportare l’arte nelle organizzazioni (artforbusiness.it, arts4business.org), oppure tutte le teorie di leadership e motivazione, delle quali abbondano i libri sugli scaffali delle biblioteche universitarie. Credo che l’esperienza olivettiana dovrebbe farci riflettere, sono passati tanti anni ed ancora oggi ci ritroviamo in situazioni molto lontane da quella realtà, dove l’impresa era parte integrante della comunità in cui risiedeva e dove l’attenzione alla persona ed alle sue problematiche era fattore determinante per la gestione aziendale.

Simone Verza

Quanto valgono 60 secondi in internet?


© Go-Globe.com – Shanghai Web Designers

Immagino che molti di voi abbiano letto già questa notizia su qualche sito web o sui quotidiani, go-gulf.com, ha pubblicato questo “infographic” che ci racconta che cosa avviene nel web in 60 secondi. L’impatto è abbastanza forte e pare che il mondo reale si sia trasferito nel web visto le numerose cose che accadono. Lasciando per un attimo stare considerazioni di tipo quantitativo, dove certamente ci sarebbe da dilungarsi, leggere questi dati mi ha fatto pensare a quante di queste azioni svolte nei sessanta secondi abbiano un valore economico, ossia facciano parte o meno di una catena del valore, in modo diretto o indiretto. Sicuramente per le aziende che erogano questi servizi si, tempo fa qualcuno si era messo calcolare quanto valesse un utente di Facebook, quello che è certo è che siamo di fronte ad economie di rete, più utenti ci sono, più questi servizi vengono usati, maggiore è il loro valore. Qualcuno, naturalmente, potrebbe avere qualcosa da ridire sulla solidità di questi business, se un giorno agli utenti di Facebook non andrà più di utilizzare il servizio, molto probabilmente il valore dell’azienda scenderà.

Se guardiamo bene tra tutti servizi illustrati nell’infographic qui sopra, quasi tutti sono gratuiti, anche qui sta la differenza, c’è qualcuno che ci permette di utilizzare gratuitamente qualcosa di suo e ci consente di creare valore per noi stessi, siamo di fronte ad una rivoluzione che è necessario capire, forse non l’abbiamo ancora studiata a sufficienza, ma un mercato come questo è assai anomalo rispetto alla vita “non virtuale”, c’è sempre qualcosa che viene condiviso tra utente ed erogatore, ma entrambi in qualche modo ci possono guadagnare. Anche se a dire il vero qualcosa di nostro lo cediamo, ossia una parte della nostra privacy ed è possibile che alcuni dati sensibili vengono utilizzati, seppur in modo aggregato (speriamo), per fare indagini di mercato.

Tornando alle considerazioni sul valore, vorrei concentrarmi un attimo su quanto queste attività possono produrre per gli utenti, “postare” su Twitter potrebbe accrescere la nostra reputazione e quindi potrebbe far crescere il nostro “valore sulla rete” che dovrebbe essere collegato a come e quanto ci possiamo spendere sul mercato. In sostanza siamo di fronte ad un sacco di strumenti che possono far crescere la nostra reputazione, non solo come individui ma anche come aziende. Come molti di voi sapranno la reputazione, soprattutto negli ultimi tempi, viene tenuta in considerazione anche da chi si occupa di asset intangibili, basti pensare all’indice Repustars®, che si promette proprio di tenere traccia della reputazione di un panel di imprese.

Non vorrei dimenticare l’aspetto etico della questione (visto che tra il resto parliamo proprio di reputazione), come ben sapete forse alcune persone abusano di questi strumenti, utilizzandoli nei modi più disparati e pubblicizzando, a mio avviso, in modo eccessivo la loro vita, dove il virtuale si scambia con il reale, dove il pudore non esiste più. Anche se questa è un’altra storia, non scordiamoci mai gli aspetti etici di tutto ciò che facciamo, ogni singola nostra azione ha delle ripercussioni etiche di cui dovremmo sempre tenere conto, non solo nella nostra vita privata (che con i social network tende sempre più a diventare pubblica), ma anche in ambito lavorativo.

Una delle conclusioni più concrete che possiamo trarre da quest’analisi può senza dubbio essere: se ho a disposizione un sacco di strumenti gratuiti per fare business perché non utilizzarli?

Potrebbe essere utile per un sacco di motivi, come ad esempio per chi sta cercando lavoro, un buon profilo su Linkedin può aiutare e possono aiutare tutte le tracce positive di noi che lasciamo nella rete.

Simone

Siete alla ricerca di nuovi Key Performance Indicators (KPIs)?

Torno per parlarvi ancora di KPIs (Key Performance Indicators), avevo già postato qualche tempo fa il link a kpilibarary.com, un sito che raccoglie gli indicatori suddividendoli per tipologia. C’è un’altra fonte, che a me è parsa molto interessante, che pubblica una sorta di manuale contenente indicatori di vario genere, anche questa volta divisi per tipologia. Si tratta di uno studio del Gartner Group intitolato: The Gartner Business Value Model: A Framework for measuring Business Performance. Dal titolo capiamo subito che non si tratta solamente di una raccolta di KPIs, ma piuttosto di un modello di misurazione della performance basato su indicatori di diverse aree che vengono in questo caso divise in: Demand Management, Supply Management e Support Services, l’idea è quella di incastonare questo modello in altri sistemi, come ad esempio la Balanced Scorecard. E’ bene inoltre precisare come questo progetto faccia parte del WICI un network che si propone di trovare standard di reporting per gli intangible assets e il capitale intellettuale (ma non solo), quindi uno degli scopi del progetto Gartner è proprio quello di standardizzare gli indicatori (KPIs) per area.

Quello che personalmente ho trovato più interessante però, sono proprio gli indicatori stessi e il modo in cui vengono presentati. Per ogni area si trova un set di indicatori che viene dettagliatamente illustrato con relativa metodologia di calcolo ed esempi. Il documento, che è scaricabile gratuitamente a questo link, può essere un utile manualetto da tirare fuori nel caso sia necessario utilizzare qualche nuovo KPI, io l’ho sfogliato per intero e mi ha dato dei suggerimenti interessanti per alcuni report che devo sviluppare.

Alla prossima!

Simone

“Intangible Capital” di Mary Adams e Michael Oleksak

Ho di recente terminato la lettura del libro di Mary Adams e Michael Oleksak “Intangible Capital – Putting knowledge to work in the 21-st Century Organization” edito da Praeger (2010), a questo link trovate il sito ufficiale. In qualche post precedente vi avevo già dato un’anticipazione sul loro metodo di rappresentare le imprese con il Lego, un modo innovativo per utilizzare i famosi mattoncini. Nel libro, ovviamente, non c’è solo questo, anzi la trattazione del tema intangibles è molto ampia e propone alcuni spunti davvero innovativi.

Intangible capital book La prima parte di “Intangible Capital” si occupa dell’introduzione al mondo degli intangibles, descrivendone la loro natura. Adams ed Oleksak adottano la classica tripartizione capitale umano, capitale relazionale e capitale strutturale, aggiungendo però quella che loro definiscono “business recipe”, ossia la traduzione degli intangibles in un modello di impresa funzionante. In sostanza questo quarto elemento sarebbe il “collante” dei tre componenti del capitale intellettuale che gli conferisce un fine utile. A mio avviso questa parte è la meno interessante del libro (se si eccettua la sezione dedicata Lego), forse anche perché non sono affatto nuovo la letture di questo genere e possiamo dire che non aggiunge molto a quanto già proposto da numerosi autori, come Lev, Sveiby e Stewart. Apro una piccola parentesi: se mi è consentito muovere una critica, spesso quando molti autori parlano della tripartizione del capitale intellettuale e soprattutto si occupano di descrivere quei fenomeni riconducibili alle dinamiche della conoscenza e dell’apprendimento, lo fanno senza avere un valido supporto teorico alle spalle, per cui il risultato sono dei concetti che non hanno fondamenta solide e che possono essere soggetti a critiche (per inciso non sono un grande estimatore della “tripartizione” come potete leggere da un precedente articolo del blog). Quando parlo di terreno solido mi riferisco ad esempio alle teorie del knowledge management di Nonaka e Takeuchi, Davenport e Prusack, ma anche al filone di studi delle organizational capabilities, tra cui Nelson e Winter, Kogut e Zander, magari ne parlerò in un futuro articolo del blog.

La seconda parte del libro, invece, si occupa di definire quali siano le “nuove” dinamiche organizzative di una “knowledge based firm”, anche in questo caso non ci sono grosse novità o meglio, se volete approfondire l’argomento la letteratura che potete trovare è ampia e molto più esaustiva di quanto riportato qui. Nonostante ciò ci sono elementi comunque interessanti, il focus degli autori viene posto sull’ “orchestrazione”, ossia sulla trasposizione all’interno dell’azienda della figura del direttore d’orchestra, che, non essendo un virtuoso di tutti gli strumenti, non può (e non dovrebbe) scendere troppo nei dettagli di ogni singolo musicista. Allo stesso modo dovrebbe comportarsi il manager del 21° secolo.

Nonostante la prima parte del libro sostanzialmente non riporti molte novità e la seconda aggiunga solo qualche elemento interessante, la terza fornisce invece concetti importanti come modello di “new accounting”, la nuova contabilità degli intangibles:

  • i-capex
  • Intangible assessment
  • Performance Measurement

L’idea si concretizza quindi in tre elementi, la prima relativa all’ “i-capex” (i – capital expenditure), fa riferimento agli investimenti (in termini monetari) in intangible assets, ciò che consigliano gli autori è di tenere traccia di tutte le spese riconducibili ad investimenti in capitale intellettuale, a loro avviso questo è l’unico modo per fornire misurazioni di tipo monetario del fenomeno che abbiano un utilità, sia per chi è chiamato alla gestione aziendale, ma anche per gli altri stakeholder dell’impresa.

Il secondo caposaldo è rappresentato invece dall’ ”Intangible Assessment” del capitale intellettuale, definito letteralmente “the new Balance Sheet” (il nuovo stato patrimoniale), quello che suggeriscono Adams ed Oleksak è di redigere indagini periodiche sugli intangibles, sottoponendo adeguati questionari a tutti gli stakeholder aziendali, in questo modo dovrebbe essere possibile raccogliere informazioni sullo status quo dell’impresa rispetto ai diversi elementi del capitale intellettuale. Il terzo elemento è rappresentato infine dalla misurazione della performance (identificata come il nuovo conto economico) che dovrebbe contenere indicatori riferibili alle tre categorie di asset intangibili e ad avere un focus sia operativo che strategico, offrendo così una panoramica dinamica su quanto è accaduto (o sta accadendo) agli intangibles dell’impresa. Un accento particolare viene posto sulla “triangolazione” tra questi tre metodi di monitoraggio degli intangibles, che non vanno visti come sistemi a sé stanti, ma che al contrario dovrebbero proprio essere utilizzati in contemporanea per sfruttare le diverse prospettive con cui guardano al problema. In questo modo dovrebbe essere possibile avere un quadro completo sulla situazione aziendale che permetta di prendere decisioni consapevoli anche in materia di asset intangibili.

Un ulteriore capitolo è dedicato alla reputazione, aspetto non trattato dagli autori “classici” degli intangibles, ma che è diventato di estrema attualità negli ultimi tempi, basti pensare alle conseguenze negative che possono avere comportamenti che minaccino l’integrità dell’ambiente o la salute della popolazione. Se a tutto ciò uniamo la potenza di internet e dei social network, ci rendiamo conto come un solo errore possa avere ripercussioni enormi (direi anche fatali) sulla performance e sulla sopravvivenza di un’aziendale.

Il capitolo finale del libro fa una considerazione riguardo la diffusione della cultura degli intangibles nelle aziende e nelle istituzioni che ho trovato molto importante. Adams ed Oleksak, pur apprezzando le diverse iniziative nate con lo scopo di diffondere la cultura ed armonizzare il reporting sugli asset intangibili, sottolineano come il cambiamento debba partire dal basso, dalle aziende stesse ed anzi dai manager che non possono fare a meno di accorgersi quanto cruciale sia gestire e misurare gli asset intangibili.

Per concludere la lettura del libro è consigliata, come già detto in precedenza, la seconda e terza parte sono, a mio avviso, più interessanti della prima. Per chi fosse interessato ad acquistare il libro io l’ho trovato qui.

A presto!

Simone

La festa del capitale umano

Visto che oggi è la festa dei lavoratori e visto che questo blog si occupa di capitale intellettuale, potremmo dire che oggi sia la festa del capitale umano :-)! Vorrei segnalarvi un link, con un filmato che parla degli italiani espatriati in cerca di lavoro e soprattutto di futuro! Il nostro capitale umano migliore sta emigrando, dobbiamo riflettere!

Guardate il video! Dal blog di Sergio Nava “La fuga dei talenti

Simone

Disegnare un’azienda con il LEGO!

Leggendo il nuovo libro di Mary Adams e Mike Oleksak, “Intangible Capital”, del quale magari vi riferirò più avanti la mia impressione quando l’avrò terminato , mi sono imbattuto in un curioso metodo di rappresentazione dell’impresa che utilizza i classici tre elementi del capitale intellettuale: capitale umano, capitale clienti (relazionale) e capitale strutturale. Adams ed Oleksak attraverso il LEGO, sì avete capito bene proprio il LEGO con cui giocavamo da bambini ,  rappresentano il meccanismo di funzionamento degli intangibles di un’azienda. Come potete vedere dalla figura, ad ogni pezzo corrisponde  un componente  del capitale intellettuale, mentre ad un altro mattoncino è affidato il compito di rappresentare il prodotto che viene venduto (più in generale nel modello il pezzo color oro, rappresenta la fonte di fatturato dell’impresa).

© Mary Adams & Mike Oleksak, 2010

Rivedere i pezzetti del Lego utilizzati in questo modo, mi ha fatto pensare ai tempi andati, dovrei averne una bella collezione in soffitta da qualche parte! Comunque state tranquilli se volete cimentarvi in questo metodo non è necessario rimettersi a giocare come si faceva un tempo, ho scoperto, sempre seguendo un link citato nel libro, che ora esiste il LEGO digitale! Potete scaricarvelo gratuitamente da questo link ldd.lego.com/download.

Tornando ora agli aspetti meno ludici della questione (come forse state immaginando io ero un vero appassionato di Lego), il metodo proposto è sicuramente interessante, potete scaricare un PDF dove viene illustrato per intero con l’ausilio di alcuni  esempi.

Personalmente trovo il sistema del LEGO geniale dal punto di vista visuale, l’idea incorpora in se l’incastrarsi dei pezzi l’uno sull’altro e questo è sicuramente un valido modo per rappresentare le connessioni che ci possono essere tra i vari componenti del capitale intellettuale. C’è invece margine di discussione sugli aspetti concettuali, come ho già discusso in un post precedente.

Qui potete trovare degli esempi, uno relativo ad un’azienda di apparecchiature medicali e l’atro che invece si riferisce ad un’impresa che commercializza pavimentazioni

Credo che il sistema LEGO si presti anche per altri usi e possa essere un ottimo metodo visuale per rappresentare anche altri fenomeni e poi col programmino si torna un po’ indietro nel tempo, provare per credere!

Simone

Intangibles, un punto di vista alternativo

La visione più classica del capitale intellettuale, proposta originariamente da Saint-Onge e riproposta poi da altri autori, è, come già detto nel post di apertura del blog, la tripartizione capitale umano, capitale clienti e capitale strutturale (per essere precisi inizialmente il capitale clienti faceva parte del capitale strutturale).

Numerosi autori hanno trattato di capitale intellettuale utilizzando questa classificazione, alcuni hanno apportato leggere modifiche, ma sostanzialmente questo è il modello che si è maggiormente diffuso su larga scala con applicazioni di diverso genere. C’è chi ha redatto bilanci degli intangibili secondo questi principi (in Italia ad esempio Brembo) e c’è chi ha proposto scorecard e sistemi di reporting (come ad esempio Sveiby).

Se ci soffermiamo ad analizzare approfonditamente i tre elementi, leggendo con attenzione le definizioni degli autori e osservando i metodi di misurazione che sono nati in base a questa tripartizione, possiamo notare come i confini tra un elemento e l’altro non siano poi così netti come ci potremmo immaginare. Mi viene soprattutto in mente una definizione fornita da Stewart (1997, Intellectual capital: the new wealth, Doubleday/Currency, New York – traduzione italiana, 1999, Il capitale intellettuale: la nuova ricchezza, Ponte alle grazie, Varese) riguardo il capitale strutturale che più o meno recita così: “il capitale strutturale è tutto ciò che rimane in azienda quando le persone sono andate a casa”, oppure anche Sveiby (1997, The new organizational wealth, Berrett- Koehler, San Francisco) che definisce capitale strutturale “l’organizzazione”.

L’affermarsi di questa visione, che in un certo qual senso offre una possibilità di spiegazione del fenomeno intangibles abbastanza intuibile e di facile comprensione, ha forse portato a trascurare un po’ la parte definitoria, che a mio avviso necessiterebbe di una teoria fondante più sostanziosa.

Naturalmente, come abbiamo già più volte detto, le teorie che si sono occupate di asset intangibili sono molteplici ed il fatto che non sia possibile definire gli asset intangibili secondo dei canoni standardizzati ha minato la diffusione di sistemi di misurazione standard ed ha favorito la proliferazione di tutti quei metodi che abbiamo visto in un precedente articolo pubblicato qui.

Detto questo però, non dobbiamo scordarci che anche se non esiste una teoria universale, ciò non significa che gli intangibles non siano importanti! Anzi, è proprio qui la sfida!

Abbiamo una certezza a cui agganciarci: la differenza tra valore di mercato e valore contabile di un’impresa è spiegata proprio dagli asset intangibili.

Tornando quindi ai metodi di rappresentazione degli intangibles e del capitale intellettuale, vorrei sottoporvi il lavoro di Contractor (2000, Valuing corporate knowledge and intangible assets: some general principles, Knowledge and Process Management, Vol. 7, Nr. 4, 242-255), che propone una visione che parte da presupposti un po’ diversi e che ci offre una lettura maggiormente dinamica rispetto alla famosa tripartizione che oramai ben conoscete.

Fonte: rielaborazione da Contractor (2000)

Come potete vedere dalla figura gli intangibles vengono anche in questo caso suddivisi in tre categorie, ma in questo caso sono rappresentati come sottoinsiemi l’uno dell’altro. Un approccio di questo genere sottolinea come gli asset intangibili abbiano natura unitaria e confini molto labili per i quali sia difficile un’identificazione certa.

La discriminante che determina il confine tra un sottoinsieme e l’altro è rappresentata dalla codificazione/esplicitazione della conoscenza e dalla sua eventuale registrazione come proprietà intellettuale. Troviamo così l’insieme più grande rappresentato dalla conoscenza tacita, insita negli individui ed incorporata nell’organizzazione, all’interno del quale trovano posto gli asset intellettuali codificati, come ad esempio le procedure, i progetti e i database. In questo caso possiamo parlare di conoscenza reificata, incorporata in alcuni “oggetti”, il valore di tali oggetti però è strettamente legato alla base di conoscenza tacita dei loro creatori/utilizzatori. Un esempio? Un database che raccoglie i dati dei clienti avrà un contenuto informativo diverso a seconda di chi vi acceda. Il customer service sarà in grado di estrapolare una mole rilevante di informazioni, utili per il proprio lavoro quotidiano, mentre gli stessi dati, osservati ad esempio da un addetto al controllo di gestione avranno una rilevanza minore e per certe parti risulteranno addirittura inutili. Come già affermato da Davenport e Prusack (1998, Working Knowledge, Harvard Business School Press) “ La conoscenza è nell’occhio di guarda!”

Infine nell’insieme più piccolo troviamo quella parte di sapere che oltre ad essere stato codificato e reificato in un oggetto “tangibile” (passatemi il termine), può godere dei diritti di tutela della proprietà intellettuale, l’esempio più lampante sono i brevetti. Un brevetto infatti, può essere visto come il punto di arrivo di dinamiche molto più intricate che hanno radici profonde nelle persone e nell’organizzazione. In altre parole il brevetto in se non è che la punta dell’iceberg del sapere di un’organizzazione.

Giungendo ora all’aspetto misurazione, come già preannunciato nella figura riportata sopra, gli asset intangibili legati alla conoscenza tacita, come è ovvio immaginare, sono quelli più difficili da misurare, mentre per i marchi ed i brevetti è più facile arrivare ad una valutazione di tipo monetario, tant’è che sono iscrivibili a bilancio come immobilizzazioni immateriali.

Spero che questo modello non vi abbia confuso le idee, rispetto alla classica tripartizione forse è un modo alternativo di guardare agli intangibles (non rappresenta necessariamente una via migliore), ma racchiude in se la spiegazione di molte dinamiche relative alla conoscenza che spesso vengono trascurate quando si parla di asset intangibili e di capitale intellettuale.

 

Simone

Key Performance Indicators: un link interessante

Uno dei problemi principali che attanaglia chi si occupa di misurazione degli intangibles, è quello di trovare gli indicatori giusti, molte metodologie forniscono infatti quella che è l’intelaiatura del sistema di misurazione, ma non ci dicono quali indicatori usare, anche perché, se ci troviamo di fronte ad una scorecard, non possiamo immaginare di avere un set di indicatori che possa essere universalmente valido per tutte le aziende. Certamente, ci saranno alcuni parametri che si riveleranno utili in molti casi, ma per tenere conto delle specificità di ciascuna impresa o di ciascun reparto è necessario costruire indicatori ad hoc. Creare un nuovo parametro può essere rischioso e può condurci su sentieri che sapremo essere sbagliati solo quando in un secondo momento analizzeremo i risultati che abbiamo ottenuto dal monitoraggio effettuato. Per questa ragione potrebbe essere interessante confrontarsi con chi potrebbe aver avuto le nostre stesse necessità, verificando quali indicatori sono già stati sviluppati.

Proprio qualche giorno fa mi sono imbattuto in un sito che fa al caso nostro, si chiama kpilibrary.com ed è una sorta di community sui Key Performance Indicators (KPIs), dove è presente un vasto archivio con numerosi indicatori (al momento ne dichiara circa 6000) consultabili sia attraverso un catalogo che tramite una funzione di ricerca.

Personalmente ho trovato questa community utile, certo non aspettatevi un indicatore per ogni vostra domanda, ma piuttosto dategli un’occhiata con un occhio critico e utilizzatelo come base di partenza e/o confronto, forse potrà esservi utile per evitare qualche spiacevole sorpresa o vi potrà far scoprire qualche parametro interessante.

Piccola avvertenza: visto che si tratta di un sito gestito da un’azienda che si occupa di Performance Measurement Systems, aspettatevi un po’ di pubblicità dove cercheranno di proporvi i loro prodotti.

A presto!

 

Simone